Oggi, lunedì 26 luglio 2021, Sir Michael Philip Jagger da Dartford, nel Kent, compie 78 anni. Inchinandomi al cospetto di Sua Rockità, vi invito ad ammirare la sua più recente, adrenalinica performance con Dave Grohl e poi a leggervi di quando ho avuto il privilegio d’intervistarlo a Londra da solista. Happy Birthday, Mick!

La Pietra che rotola senza Pietre Rotolanti. Ovvero il Mick Jagger solista: quello che si toglie qualche sfizio – ad esempio duettare con Peter Tosh (Don’t Look Back, 1978) o David Bowie (Dancing In The Street di Martha and the Vandellas, 1985) – che si tuffa senza rete come quando nel 1969 chiama a sé il chitarrista Ry Cooder e i 2 Traffic Steve Winwood e Jim Capaldi per cavar fuori la sublime vena bluesy di Memo From Turner, dalla colonna sonora del film Performance; che chissenefrega se il risultato finale non è all’altezza delle aspettative, come nel 2004 con la colonna sonora del remake di Alfie in coabitazione con Dave Stewart; e nel 2011, quando con l’ex Eurythmics + Joss Stone, Damian Marley e A.R. Rahman dà vita ai pompatissimi SuperHeavy; e che quando nel 2017, a sorpresa, se ne esce con il singolo Gotta Get A Grip/England Lost biascicando fra chitarre ipertrofiche e ritmi enfatici «l’epoca di confusione e frustrazione che stiamo vivendo». E sono 4 gli album che da unico intestatario Jagger pubblica nell’arco di 16 anni: She’s The Boss (1985), Primitive Cool (1987), Wandering Spirit (1993) e Goddess In The Doorway (2001). Dischi che rimasterizzati da Miles Showell agli Abbey Road Studios di Londra dai nastri analogici originali,  sono rispuntati in vinile per la gioia di stoniani e/o jaggeriani.

Se She’s The Boss (registrato ai Compass Point Studios alle Bahamas e prodotto da Mick con Bill Laswell e Nile Rodgers) e Primitive Cool (inciso in Olanda e alle Barbados, coprodotto con Keith Diamond e Dave Stewart) seppur semi-intronati dall’elettronica come gran parte dei dischi dell’epoca macinano pezzi più che degni come Lonely At The Top, Running Out Of Luck, Hard Woman, Just Another Night, Let’s Work e Party Doll (coverizzata nel 1999 da Mary Chapin Carpenter) con la partecipazione straordinaria di Jeff Beck, Pete Townshend, Herbie Hancock, Bill Laswell, Bernard Fowler, Nile Rodgers, Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, tutt’altra storia con Wandering Spirit (prodotto da Jagger e Rick Rubin) e Goddess In The Doorway (coprodotto insieme a Marti Frederiksen e Matt Clifford) che inanellano brani come Wired All Night, Sweet Thing, la cover di Use Me di Bill Withers (duetto Jagger & Lenny Kravitz), masticano sapido rock blues (Put Me In The Trash), sospirose melodie (Don’t Tear Me Up, stile You Can’t Always Get What You Want), funk in falsetto (Sweet Thing, alla Emotional Rescue) e country & western (Evening Gown), senza dimenticare Joy, God Gave Me Everything e una ballad a presa rapida come Don’t Call Me Up.

Nel poker non ho dubbi: musicalmente scelgo Wandering Spirit. E poi ci sono affezionato perché mi ha dato l’opportunità di intervistare a Londra, il 26 novembre 1992, Sua Rockità in persona. Solo una ventina di minuti d’intervista, non 1 di più né 1 di meno. Ricordo di aver controllato per l’ennesima volta, a bordo del taxi, le domande da porgli. Nella testa da qualche ora continua a ronzarmi Tumbling Dice, da Exile On Main St. dei Rolling Stones. Ma mi devo concentrare su Wandering Spirit. Anche se a Milano i discografici me l’hanno fatto ascoltare in anteprima solo una volta, è la sensazione a pelle ciò che conta. Decisamente positiva.

Alle 16 il taxi si ferma in Halkin Street. Appuntamento all’Halkin Hotel. Reception. Dopo avermi fatto accomodare in poltrona, una solerte press-agent mi fa firmare un’impegnativa. Intervisterò Jagger solo ed esclusivamente per il mio giornale, Tutto Musica & Spettacolo. Non uscirà neppure un rigo altrove, lo giuro. Raggiungiamo in ascensore una suite dove mi lasciano lì, in stand by. Moquette affollata di grandi foto promozionali in bianco e nero con Mick Jagger sorpreso nelle inconfondibili scosse dinoccolate, per non dire dell’altrettanto inconfondibile sorriso a 2 piazze. Mi danno finalmente l’ok ed entro in un’altra suite. Sembra il gioco delle scatole cinesi. Ho l’impressione che sia tutto un bluff: ho visto Jagger in cartolina, bye-bye, me ne torno in Italia.

Ma ecco che Michael Philip Jagger, 50 anni fra un tot di mesi, entra nella suite. Camicia di seta azzurra, pantaloni e gilet blu, chioma al solito fluente. Mi stringe con franchezza la mano e mi sembra alto 2 metri: succede, quando il Mito è a portata di mano. Fossi una femmina chiuderei la porta, getterei la chiave e chi s’è visto s’è visto. Lo Stone mi sorride facendo luccicare il brillantino incastonato nell’incisivo. Zero domande sulla vita privata, solo musica: passata, presente, futura. Me lo ha raccomandato la press-agent, cortese ma decisa come un generale prussiano, giù alla reception.

Ci si siede. Uno di fronte all’altro. Con accento aristocratic & cockney, lui mi spiega che gli “spiriti erranti” del disco «sono tutte quelle persone che non sanno da che parte stare. Perennemente indecise: non solo dal punto di vista geografico ma sociale, politico, spirituale».

Controbatto che, viceversa, i suoi “wandering spirits” musicali sono decisi, semplici, lineari. «Blues, gospel, rhythm & blues… E in molti passaggi del disco mi avvicino al country e a un certo rock di stampo inglese. Mi sono sempre piaciuti i repentini cambi di stile».

Né ti dispiacciono le cover, aggiungo. «Sicuro. Ne ho scelte 4: Think la incisero nel 1957 i Five Royals, ma a portarla al successo nel 1960 fu James Brown. Use Me è un pezzo di Bill Withers, mentre I’ve Been Lonely For So Long non la conoscono in molti: la cantò Frederick Knight negli anni 70. Handsome Molly, infine, è puro folk che ascoltai per la prima volta da Bob Seeger. L’ho proposta nei party fra amici: quando ci si siede in cerchio e ognuno intona una canzone…».

La butto sul personale, ma con giudizio. Che differenza c’è fra il Jagger di oggi e quello di 30 anni fa? «Più esperienza. Più ricordi. Ma dentro mi sento lo stesso di allora, anche se affronto le cose della vita in maniera diversa. Come artista, invece, amo la musica con la stessa intensità dei tempi di Aftermath, Beggars Banquet, Sticky Fingers. Compongo canzoni con lo stesso gusto adolescenziale».

Ricordi i primi dischi che hai acquistato? «Metà anni 50, 3 singoli: Whole Lotta Shakin’ Goin’ On di Jerry Lee Lewis, Bye Bye Love degli Everly Brothers e I’m Not A Juvenile Delinquent di Frankie Lymon and the Teenagers».

Si alza in piedi, mi offre qualcosa da bere, preme play sul lettore Cd e mi dice: «Ti piacciono? Sono gli Stone Temple Pilots. Grande energia. Come quella dei Lemonheads, altra buona band. Se invece preferisci il soul, ascolta i D’Influence…».

Bussano alla porta. È la press-agent. In silenzio, mi fa con le 2 dita il gesto della forbice. Tempo scaduto ma io faccio lo gnorri. Mick annuisce, le fa l’occhiolino e io ne approfitto: Che mi dici dei Rolling Stones? «Ci ritroveremo a marzo per il nuovo disco, che vogliamo pronto entro fine anno. Mi piace tornare a respirare aria di band. E non farò concerti solisti per poter essere totalmente a disposizione del gruppo».

Cosa ti auguri? «Di ritrovare almeno un pizzico della positività e della voglia di suonare che ci ha accompagnati 3 anni fa nello Urban Jungle Tour. Sono molto fiducioso».