Le sue fotografie sono un andirivieni di turisti allo sbaraglio, coppie da seconda e terza età su divani rivestiti di cellophane, corpi cellulitici che rosolano al sole, cups of tea truccate da cineserie, dolci colesterolici, pantofole di peluche, tinelli moquettati, dame falso-ingioiellate, fiori veri e fiori finti, barboncini mascherati… Quelle verseggiate dal poeta crepuscolare Guido Gozzano come “le buone cose di pessimo gusto” (il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco…) vengono ingigantite dall’obbiettivo di Martin Parr nel kitsch inteso come caccia spasmodica al “sublime ordinario” di persone, cose e case del ceto medio (britannico e non). Il fotografo di Epsom, nel Surrey, classe 1952, inizia dai poveri diavoli di Manchester per poi promuoversi testimone privilegiato/avvelenato dell’era Thatcher. In una delle sue mostre più famose, Planète Parr, non solo ha messo in scena la mondializzazione del cattivo gusto fra “nouveau riches” moscoviti e forzati del turismo di massa, ma si è messo in scena da collezionista compulsivo quale è esponendo schegge della sua raccolta trash: orologi da polso con l’effigie di Saddam Hussein, rotoli di carta igienica con sopra stampato Osama Bin Laden, teiere stile Margaret Thatcher, souvenirs devoti a Barack Obama… Sublime paccottiglia ma non solo: con scientifica precisione ha messo in mostra scatti d’autore e libri fotografici. Già, perché Martin Parr è un vero esperto in materia di photobooks. E quando si mette a raccontarli come ha fatto al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (MI) si resta a bocca aperta ad ascoltarlo. Noi ve lo facciamo leggere. (S.B.)
“Colleziono libri fotografici da quando negli Anni ’70 studiavo al Manchester Polytechnic. Questo genere di pubblicazioni non ha finora avuto il giusto rilievo nella storia della fotografia: che è soggettiva e in costante evoluzione. Quest’arte, in Europa e in America, è stata raccontata da curatori e teorici che si sono spesso limitati a descrivere il contenuto delle mostre anziché prestare la dovuta attenzione all’importanza delle immagini. Ciò che prima o poi vorrei fare è tracciare una nuova storia della fotografia attraverso i suoi libri, che al contrario delle mostre rimarranno per sempre. Potrei, in buona sostanza, rappresentare (in quanto fotografo) le sensazioni visive di questo nostro mondo. Per farlo, il primo libro a cui penso è Book Of Bread di Owen Simmons, vero entusiasta della panificazione, pubblicato nel 1903. Una piccola edizione, rarissima. Si tratta di una guida illustrata, che definirei concettuale, d’ogni genere di pane. Al 1936, invece, risalgono le fotografie colorate a mano e incluse in Les jeux de la poupée, ultimo libro della trilogia pubblicata dal pittore, scultore e fotografo tedesco Hans Bellmer, noto per le bambole a grandezza naturale (che raffiguravano femmine adolescenti) prodotte negli Anni ’30. Altro mago dell’obbiettivo, il russo Ilja Ehrenburg. Trasferitosi a Parigi negli Anni ’20, pubblica nel 1933 Moi Parizh/My Paris in collaborazione col grafico El Lissitzky. La capitale francese dell’epoca, considerata molto glamour dai ricchi, viene viceversa ‘descritta’ dalla Leica di Ehrenburg come una città popolata da poveri ed emarginati, che vengono accuratamente ritratti. Daniela Rossell, al contrario, nell’interessante volume Ricas y Famosas (2002) coglie l’essenza più kitsch della nuova borghesia di Città del Messico“.
“Se mi metto a ragionare sul 20° secolo, potrei menzionare perlomeno una decina di photobooks. Ne scelgo uno in particolare che considero iconico: American Photographs di Walker Evans, pubblicato nel 1938 dal Museum of Modern Art di New York. Ma ancora più influente è New York, uscito nel 1956, del francese William Klein. La fotografia moderna, senza dubbio, nasce da qui. E quanto Klein abbia influenzato gli altri fotografi lo dimostrano Lisboa: cidade triste e alegre di Victor Palla e Costa Martins (1959); El rectangulo en la mano del cileno Sergio Larrain (1963), fotoreportage in bianco e nero sui bimbi vagabondi e Sweet Life dell’olandese Ed van der Elsken (1966), strepitoso documento sul modernismo urbano e il concetto di metropoli intesa come Disneyland. Fra le grandi rivelazioni della mia vita professionale, ci sono i libri giapponesi che ho avuto la fortuna di scoprire nel 1992 durante il mio primo viaggio nel paese del Sol Levante. Ad esempio Killed By Roses e Ordeal by Roses di Eikoh Hosoe, che offrono l’occasione irripetibile di ‘spiare’ nella vita del romanziere Yukio Mishima che nel 1970 mise fine alla propria vita con un suicidio rituale, espressione calzante di un conflitto interiore e politico. Apro una parentesi, poi, su quello che mi piace definire ‘vernacoliere americano’: mi riferisco alla serie di annuari degli Anni ‘50 (come Best Of Boys, Best Of Girls) che raccolgono i più bei ritratti di ragazzi e ragazze ai tempi del college. Un altro libro che mi ha profondamente influenzato è Evidence di Larry Sultan e Mike Mandel, pubblicato nel 1977. Raccoglie una selezione di immagini provenienti dagli archivi di agenzie, istituzioni e corporazioni pubbliche e private degli Usa: immagini che definirei happenings, spesso ironici, di esperimenti e invenzioni d’ogni tipo. Peculiarità che ritrovo in altre 2 pubblicazioni degli Anni ‘70: 34 Parking Lots di Ed Ruscha, che ci fa concettualmente vedere 34 parcheggi americani; e la raccolta di 12 Bilder di Hans-Peter Feldmann con immagini di aerei in volo (puntini sospesi nel cielo), gambe di ragazze e così via. Concludendo, per quanto riguarda i libri fotografici delle pubblicità aziendali (assai ricercati dal punto di vista collezionistico) il più famoso è Electricity di Man Ray, del 1931, attraverso il quale il surrealista promuove con i suoi Rayogrammes l’azienda elettrica francese. Aggiungo, infine, gli scatti ferroviari di O. Winston Link raccolti in Night Trick: Photographs of the Norfolk & Western Railway, 1955-60“.