Vi offriamo in anteprima il 1° capitolo di Vacanza di sangue, il nuovo romanzo di Sergio Cioncolini. Fra le altre sue pubblicazioni, edite da Pendragon, ricordiamo Il mio nome è Libero Nonconsumo (2008), Male di nuvole (2009), Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019).

Facemmo conoscenza con una certa facilità. Fu lui, veramente, che attaccò bottone per primo. Torse il busto verso di me dalla sedia sulla quale sedeva al tavolo accanto al mio. Io, al momento, contemplavo il mare davanti con quell’interesse poco assorto che in genere si regala a luoghi, magari incantevoli, ma ben conosciuti. La sedia di legno sotto le sue chiappe cigolò un momento. Fu un invito a sviarmi da mare e sabbia che mi avevano stancato le pupille già da un po’.
Mi girai e trovai una faccia piegata sulla mia distante mezzo metro, forse meno. Un volto mi fissava da un paio d’occhi grandi, verdini, sbiaditi, accesi da una certa intensità. Una intensità, come dire …, una intensità priva della curiosità che in genere si cerca di soddisfare osservando con attenzione le facce altrui. Spesso senza neanche sapere, o voler sapere, che cosa si cerca. Il suo era uno sguardo assente, ecco. Vuoto, senza alcun apparente interesse. Come se del mio volto non gl’importasse nulla, ma volesse soltanto trasmettermi un suo di pensiero. In altre parole, rendermi partecipe di qualcosa di importante, ma solo per lui. Cedermi un frammento della sua mente per conquistare parte della mia, forse.
“Lo vede quel gabbiano lassù che volteggia attorno al balcone del quinto piano?“.
Parlava e volgeva il capo a destra, tirato all’insù. Un movimento plastico che trovai quasi elegante.
Presi a osservarlo, incuriosito dalla sciolta naturalezza che caratterizzava quel suo spingere le parole fuori di bocca, quasi che io fossi un suo interlocutore abituale, un amico, e non un perfetto sconosciuto.
Seguii il suo sguardo ascendente qualche istante dopo avergli rifilato una bella occhiata sull’intera persona. Notai che la facilità dei modi e della parola si allargava, per così dire, al resto della persona: dall’abbigliamento alle caratteristiche somatiche del volto, nonché alla lunga figura che s’intuiva seduta a quel tavolo. Indossava una camicia bianca, fresca di bucato, larga e lunga, che calava a coprire il busto e buona parte del bacino. Appariva spiegazzata in un certo modo che sapeva di intenzionale, una specie di ricercatezza estetica che trovavo francamente discutibile. Cadeva sopra un pantalone di lino blu. Pensai che fosse lino per via delle tante pieghe che giravano con regolarità attorno alle povere cosce. Scarnite, intendo. Si trattava di un uomo magrissimo, calvo che di più non si poteva. Faccia, collo e cranio abbronzati e lustri. Roba che neanche una passata di cera avrebbe potuto fare meglio. Fronte ampia, aperta più di quanto fosse in realtà. Per via che di capelli a fermarne l‘attaccatura non c’era traccia. Fronte e cranio parevano essersi saldati a comporre un tutt’uno. Occhi piccoli di un verde spento, mobili, circondati da fitte rughe brunite che s’irraggiavano dall’interno di grandi orbite violacee. Tanto da richiamare all’immaginazione, una immaginazione, diremmo, libera da facili condizionamenti, qualcosa di simile a un buco del culo.
Guance scavate e lisce. Barba assente. Un volto forse ben rasato, oppure del tutto glabro. Labbra sottili, scure, appena increspate da minuscole asperità. Di sotto un piccolo mento sfuggente. Piedi nudi dalle dita lunghe e scheletriche ch calzavano delle ciabatte di plastica gialla, dozzinali, del tipo chiamato infradito. Simili ciabatte, addosso a un soggetto come lui, mi parvero stridere assai con il resto della persona. Qualcosa di esteticamente incongruo, per intenderci. Dimostrava una settantina d’anni. Portati al meglio, tuttavia.
Giovanni interruppe la mia disamina dell’uomo che continuava a fermare gli occhi nel cielo e mi scaricò davanti l’aperitivo con la grazia che gli conoscevo. Lo guardai, forse sorpreso di avermi distratto. L’aperitivo era di un colore rosso morbido. All’interno del bicchiere, avvolti nel sole che gli cadeva sopra, alcuni cubetti di ghiaccio parevano accesi da un’interna luminosità che spandeva attorno schegge di allegria.
In accompagnamento seguiva un piattino di stuzzichini di diversa fattura, tra i quali primeggiava la frittata di Irene, la cuoca. Stagna, la frittata, ancora tiepida di un bel marrone carico traversato da spesse venature di erbette e spinaci bolliti.
“ Vede … “, mi apostrofò quel tale distogliendomi dalla contemplazione del ricco piattino, “ … sta per scendere, è quasi l’ora “.
Ero lì lì per chiedergli a quale ora alludesse quando lui, ammutolito di colpo, si era girato di nuovo a guardare il gabbiano che volava lassù in cerchi concentrici sempre più stretti nei pressi del bianco balcone del quinto piano di quel bianco palazzo davanti al mare.
Anch’io prestai attenzione al volo del maestoso uccello dalle ali che avevano lo stesso colore dei muri nei quali, a tratti, parevano confondersi. Planava lento, sicuro.
“ È l’ora di che cosa ? “ , domandai con scarsa attenzione, lo sguardo incollato al volo del gabbiano.
“ È l’ora del pasto, perdio ! “ , mi strillò quasi in faccia.
Il suo alito era caldo, forse troppo, e sapeva di caffè. Lo fissai arretrando un poco il volto. In genere non gradivo ingollare il fiato altrui, salvo esentare certi respiri femminile fuori controllo. Mi trovai a pensare che quel tale era più matto di un cavallo.
Ripresi a osservare il gabbiano che volteggiava nei pressi del balcone, sempre più vicino. Nel palazzo, al momento, non apparivano persone affacciate ad altri balconi o a qualche finestra che potessero disturbare la lenta progressione dell’avvicinamento all’obiettivo.
Si trattava di un palazzo anonimo, simile ad altri palazzi anonimi che sporgevano sul lungomare. Una grande casa senza pretese, in sostanza. Tuttavia era appetita, a detta di Giovanni, da turisti e villeggianti in cerca di rifugi estivi, per due precise ragioni. La prima era l’insuperabile prossimità  al mare, che si può dire arrivasse a lambire i piedi del palazzo con le sue acque verdazzurre, subito profonde, sempre increspate dalla schiuma pulita che si produceva in continuazione. La seconda ragione era meno immediata da comprendere poiché richiedeva quel tanto di sognante immaginazione che scarseggia ai giorni nostri. Si vuole qui alludere a tutto il biancore che tratteneva sulle sue pareti. Una sorta di fantasiosa purezza che sapeva di antichi castelli e virginee castellane, assolutamente inesistenti nella realtà contemporanea.
Giovanni esprimeva quest’ultimo concetto a modo suo. Un modo rozzo e impreciso che io reinterpretavo con maggior liberalità e consapevolezza, credo. A volte però trovavo che tutto quel bianco rifratto da un forte sole fosse troppo, almeno per i miei occhi.
Il gabbiano possedeva delle grandi ali che sbatteva nell’aria con la plasticità feroce del predatore in procinto di calare in picchiata sopra una preda designata.
“ Lo nutro da quand’era poco più che uno spelacchiato pulcino. La madre aveva probabilmente subito un incidente in mare. Guardi che bell’esemplare ne è venuto fuori. Tutto merito mio. Sapesse i piattini che gli sciorino davanti ogni mezzogiorno. Guai sgarrare sul tempo. La tolleranza è di dieci minuti. Dopo di che urli e strepiti nel suo stridente linguaggio. Sono tutte maledizioni, ne sono certo ! Il menu è sempre quello: pesciolini freschi, ma anche bocconcini di carne rossa che ha sempre ingollato con palese godimento. Gli ho dato anche un nome quando ho imparato a riconoscerne le espressioni degli sguardi. L’ho chiamato Prospero, come il personaggio shakespeariano. Ricorda il Macbeth ? Per via che me lo rammenta per i suoi modi scopertamente opportunisti. Privi di amore, intendo. Chiesastici. Illeggibili e maligni. Occhi dai quali devi sempre aspettarti il peggio “.
Ridacchiò, più per sé che per me, fregandosi le mani. Un riso breve, secco, che non era nemmeno un modo di ridere.
Lo guardai di nuovo in volto, ma non potei osservarlo quanto meritava la mia crescente curiosità. Perché lui si era alzato di getto dalla sedia, la quale crollò al suolo con identica immediatezza. La mano dell’uomo, altrettanto svelta, l’afferrò in caduta e la riportò al suo statico equilibrio. Ciò dimostrò una notevole prontezza di riflessi che induceva a pensare che non fosse la prima volta che partecipasse a una sequenza del genere.
Era un uomo alto e secco, come avevo avuto modo di constatare prima che si alzasse. Guadagnò a passi svelti l’uscita sulla passeggiata senza nemmeno circolare un saluto a quanti lo conoscevano in veranda, me compreso, e puntò di corsa verso il lato opposto della strada. Là sorgeva il suo palazzo bianco. In un baleno scomparve oltre l’ingresso. A quel punto fui convinto che ce li aveva per davvero un paio di bulloni fuori registro. E non soltanto per i modi che avevo avuto modo di osservare in veranda. Ma anche per via della camminata nervosa, sbilenca che lo caratterizzava e che mi ricordava l’alter ego del Dottor Jekyll. Uno sbullonato Mr. Hide, appunto.
Giovanni mi giunse alle spalle. Sostò un istante soprappensiero. Poi sedette sulla sedia accanto alla mia. Mi guardò. Bevvi un sorso di aperitivo cui fece seguito un cubetto di frittata. A quel punto sbirciai la faccia di Giovanni. Notai che aveva gli occhi lucidi, come di qualcuno che trattiene a fatica una voglia matta di parlare. Infatti, parlò:
“ L’hai visto ? “, chiese.
“ L’ho visto “, risposi.
“ Non farci caso … “, riprese, “ … non le ha tutte a casa “.
“ Questo l’avevo capito da me “, dissi, gli occhi fermi alla porta della veranda dalla quale se l’era svignata in tutta fretta, quasi l’avesse colto un acuto stimolo a liberarsi da un insostenibile peso intestinale.
“ E la storia del gabbiano che gli svolazza davanti al balcone all’ora di pranzo ? E lui che se la fila di sopra e lo nutre a pesciolini e carne cruda ? “.
Glielo chiesi col riso in bocca, ma neanche tanto.
“ No, no ! Quello è tutto vero ! “, strillò Giovanni eccitato. E subito riprese:
“ Tira su gli occhi e lo vedrai tu stesso mentre allunga il piattino all’uccello. E sembra che gli parli. Magari lo invita a farsi sotto:-Tu vieni qua e io ti do da mangiare – gli dice. – Se non ti garba spalanca le bianche ali e vola sul mare aperto a cercare la fatica del pranzo dentro l’acqua, come fanno i tuoi fratelli ! – Sono quasi sicuro che quello è il suo discorso. È una sfida ! “.
Inspirò un lungo fiato e continuò :
“ Ma non credere. È l’unica stramberia che gli si conosce. Lui è una persona colta, un professore di lettere in pensione, figurati ! “.
Alzai gli occhi a guardare ancora lassù e lo inquadrai subito, con quelle braccia secche secche dentro le maniche della camicia bianca che sembravano vuote, piene soltanto di poca aria. Sporgeva mezzo busto dal balcone, secco anche quello. Il busto, non il balcone. E pareva che lo indicasse davvero il piattino agli occhietti del gabbiano, posato a terra da qualche parte sotto di lui e che lo invitasse, il gabbiano, ad atterrare. L’uccello, come lo vide agitare le mani parve capire. Sbatté con forza le ali e si gettò in avanti con impeto da predatore, artigliando le zampe attorno al corrimano.
Scorsi il professore arrotolare la camicia fino ai gomiti, quindi scomparve. Immaginai che si fosse chinato a sistemare il piattino al suolo, magari più vicino all’uccello. Dopo alcuni secondi ecco che ricomparve col busto dentro la svolazzante camicia gonfia d’aria. Prese a osservare il gabbiano che pasteggiava ai suoi piedi. La posizione dell’uccello non era visibile, sebbene fosse intuitivo che stesse laggiù. Poi il gabbiano ricomparve di botto. Balzò sul corrimano, le ali mezzo aperte. Erano davvero imponenti. A un’osservazione più approfondita ricordava più il falco, per il gestire fermo e feroce del predatore, che un gabbiano. Lanciò uno sguardo attorno, senza minimamente curarsi dell’uomo che l’aveva nutrito, poi sbatté con forza le grandi ali e si gettò nel vuoto alzandosi subito in volo in direzione del mare aperto.
“ È  vero. Hai ragione tu, non è mica tutto matto “, esclamai osservando l’anziano professore piegato sul balcone che ammirava il suo uccello sconfinare sulle grandi acque.
“ Non ha l’atteggiamento del vero matto … “, insistei, “ … è soltanto un bel po’ sbullonato, credo, quello sì … “.
Senza rendermene conto avevo elevato il tono di voce che tradiva la mia sorpresa per quanto mi era capitato di vedere. Tanto che i pensionati sospesero per un istante la partita a ramino e volsero il capo a guardarmi. Tutti insieme. E tutti insieme sorrisero bonariamente nei loro faccioni rugosi e abbronzati da fancazzisti patentati.
“ Succede tutti i giorni a quest’ora “, commentò il geometra Siri con la sua voce di trombone sfiatato. Il geometra Corrado Siri era un ultra ottantenne agile e snello che di anni ne dimostrava a malapena una sessantina. Era uno che parlava soltanto di figa, a detta di Giovanni. Il quale, nei confronti del Siri, dimostrava una sorta di ammirata insofferenza.
“ No, no ! “, fece eco Giovanni alle mie parole. “ Per essere scompensato lo è per davvero. Basta guardarlo nei modi “.
“ Nei modi ? “.
“ Nei gesti normali, quelli che facciamo tutti, quasi tutti, nei tic. Lui ne ha diversi “.
“ E quali sono ? “.
Al momento non me ne veniva alla mente nessuno.
“ Prova a osservarlo quando compare il mattino per il caffè. Ma senza farti notare. È permaloso di brutto. Chiedi a loro … “.
E indicò col mento il tavolo dei pensionati che avevano ripreso il ramino. Poi risero in coro a una battuta di Manfredo, l’ex ferroviere, che aveva mormorato qualcosa senza che Giovanni ed io lo udissimo.
Quindi Manfredo si girò verso si me e disse:
“ Chiedi a Giovanni, lui sa tutto … “.
Quel gruppetto di pensionati che parevano un solo uomo moltiplicato per quattro, anche se diversissimi uno dall’altro, erano alcuni anziani del luogo o cittadini ritiratisi al sole della Liguria che scaldavano le sedie di Giovanni dal mattino alla sera contro il cafferino delle nove, il bianco spruzzato delle undici e poi via di volata a casa verso l’ora di pranzo a baccagliare con la moglie. Non li vedevi più fino alle quattro per la partita a ramino, che riprendevano dopo l’interruzione del mattino, che durava in media fino alle diciotto. Ora in cui filavano di nuovo a casa a baccagliare con la moglie prima di cena.
Mi volsi a guardare Giovanni il quale, come eseguendo un comando, avvicinò la testa al mio orecchio. E lì rimase per circa tre secondi. Pareva pensare, mettere ordine tra quanto avrebbe dovuto dirmi. Poi scaricò fuori il tutto che conosceva in merito all’uomo del gabbiano. Lo fece con una specie di furia gioiosa.
“ Lui si chiama Giandomenico Occhiello … “.
Lanciò un’occhiata al crocchio dei pensionati che lo fissavano con attenzione, poi continuò: “ Loro, però, lo hanno soprannominato Strappacapelli … “.
Qualcuno del gruppo rise.
“ Strappacapelli ? Perché ? “.
Giovanni parve seccato della mia interruzione, forse perché gli avevo spezzato il filo del discorso.
“ Perché lui ha uno strano vizio, oppure un tic, vedi té. Appena puoi dagli una guardata di fino. Vedrai che ho ragione. Adesso ti spiego … “.
Mosse il sedere sulla sedia. Mi parve soltanto concentrato, non era in procinto di liberare una scorreggia. Quindi riprese: “ Lui gratta la testa pelata si può dire ogni due minuti, forse tre, però se la gratta in un modo strambo. Pare cercare dei residuati …, come fanno le scimmie quando si spulciano … “.
“ Residuati ? “.
“ Sì. Capelli che sono rimasti impiantati nel cranio. Oppure quelli nuovi, sottili e chiari, che crescono in una notte di luna piena e poi spariscono come la chimera “.
“ Fai il poeta, adesso ? “.
“ Dai ! Trovatolo, il capello bambino, figlio della sua inguaribile speranza, lo imprigiona tra le dita e strappa via la mano con una certa incazzosa violenza. Poi lo guarda da vicino, a lungo, fino a vedere quello che non c’é. Infine lo scarica a terra e si pulisce le dita, non si capisce da che cosa. Ecco. Dopo di che riprende a leggere il giornale, tranquillo fino alla prossima volta. Ecco dove nasce il soprannome che gli hanno rifilato “.
A quel punto smise di parlare e alzò il capo. Così feci anch’io. Guardammo entrambi alla casa bianca, al quinto piano, dov’era impiantato il bianco balcone. Non si vedeva nessuno. La porta finestra era chiusa.
“ Se n’è andato “, dissi, quasi deluso.
“ Si è chiuso la porta finestra alle spalle ed è entrato “.
“ Col caldo che fa, lui si chiude dentro casa ? “.
“ Sì … “, rispose Giovanni mentre si metteva in moto per raggiungere il bar. Irene aveva sporto il capo dalla porta per invitarlo a muovere le chiappe. Infatti si intravedevano un paio di clienti in attesa. “ … c’ha l’aria condizionata lui, nel soggiorno “.
Rimasi laggiù seduto, parzialmente pensoso. Quello strano individuo m’incuriosiva proprio. Nel frattempo la veranda si era quasi svuotata. L’ora di pranzo si faceva vicina e i pensionati, consultati gli orologi, si alzarono tutti insieme e, insieme, mi lanciarono il solito buon appetito. Poi, senza profferire altre parole, puntarono verso l’uscita sulla passeggiata in rigorosa fila indiana. Davanti all’ingresso del bar volsero il capo all’interno, a Giovanni, che sapevano là.
“ Ci vediamo nel pomeriggio, Giovanni, verso la solita ora. Tienici le sedie in caldo ! “, strillò il gioielliere sulla porta, “ Segna, ti saldiamo stasera “.
Il gioielliere, in realtà, non faceva il gioielliere. Si era meritato quell’appellativo grazie all’interessamento degli amici del bar. Commerciava in collanine, braccialetti e altra paccottiglia per ragazzine sui mercati dei dintorni. Teneva un banchetto dove esponeva la sua mercanzia ben disposta sopra una tovaglietta rossa. Giovanni assicurava che trattava della bella robetta. Cose di gusto, affermava convinto, che rimediava da un marocchino che faceva avanti e indietro dal suo paese. Pare che guadagnasse discretamente. L’aiutava anche la moglie, a volte.
Mi fermai seduto al tavolo in veranda ormai pressoché deserta parendomi a tratti di reggere sulle spalle un buon numero di malinconie. Invece sostenevo soltanto la mia, che però era bella grossa. Mi guardai attorno con una cert’aria che pareva assenza e che, invece, significava domande e ancora domande del tipo: Chi sono ? Dove sono ? Che cosa ci faccio qui ? Roba da chiodi ! Tra l’altro aspettavo che Giovanni mi dicesse qualcosa sul menu della giornata. A mezzogiorno mangiavo spesso da lui. Tante insalate miste, in genere. Insalatone, le chiamava. E pesce, spesso, che gli ordinavo il giorno avanti e che lui si procurava al porto la mattina dopo.
Girai il capo attorno. Osservai la spiaggia. I lettini sotto gli ombrelloni erano tutti vuoti, abbandonati come per una fuga precipitosa, un imminente pericolo che aveva costretto i bagnanti a lasciare tutte le loro cose qua e là sulla sabbia. Anche il mare diceva dell’assenza di bagnanti. Alla ferocia del sole resisteva soltanto un crocchio di ragazzi sistemati in un angusto circolo dove la battigia diventava mare, sulla quale le ultime ondine arrivavano sfinite. Un pugno di ragazzi e ragazze sui tredici, quattordici anni. Ridevano e raccontavano a quanti se n’erano andati che c’erano loro, che erano loro gli unici rimasti. I padroni della spiaggia. Scherzavano toccandosi nei giovani corpi seminudi. Svelte carezze che volevano far credere di essere accidentali e che erano, invece, i primi, inesperti approcci dell’amore.
Li osservavo e mi calò dentro una piccola, dolce tristezza che veniva tutta da loro e insieme arrivava un pesante mattone di dolorosa malinconia, ma quella era roba soltanto mia.
M’imposi di pensare ad altro e subito tornò alla mente quell’uomo curioso. No. Più che curioso, disturbante. C’era qualcosa in lui, al di là delle stramberie del gabbiano, qualcosa che non riuscivo a collocare nell’insieme della persona che era.
Giovanni uscì dalla cucina con due piatti nelle mani. Nel primo riposavano ben distese un paio di trigliette rosa cucinate alla griglia. Nel secondo la solita insalata mista. Profumava tutto di buono. Ci diedi dentro qualche forchettata poco convinta. Questo al principio. Tuttavia l’appetito non tardò a svegliarsi. Intanto Giovanni mi scaricava davanti il suo bianco frizzante in caraffa. A quel punto mi lasciò mangiare, la testa semiaffondata nei piatti. Quando arrivò col caffè, mi sedette accanto. Buono anche quello, ristretto al punto giusto. Lo bevvi in silenzio, gli sguardi incollati laggiù in fondo, là dove mare e cielo si incontravano fino a compenetrarsi. Mentre posavo la tazza sul tavolo scorsi lì accanto il solito mazzo di carte, in qualche modo uscito dalle mani di Giovanni, che guardai più che sorpreso. Uno non si immaginerebbe mai che da quei salsicciotti che teneva al posto delle dita potesse scivolare fuori un bel mazzo di carte svelto come una saponetta.
Giocammo a scala per oltre un’ora, senza scambiare una sola parola, né un’occhiata. Era bello il silenzio che ci avvolgeva nella tiepida ombra della veranda. Era un silenzio lontano, rispettoso del nostro di silenzio. Poi nacque del rumore di là, voci, e lui dovette rientrare al bar per servire alcuni clienti.
Uscii sulla passeggiata a mare, anch’essa quasi deserta. Muovendomi con lentezza non potei fare a meno di alzare gli occhi al quinto piano della bianca casa. Il balcone era vuoto, la porta finestra chiusa e nessun gabbiano sventolava grandi ali bianche planando in stretti cerchi verso un piattino di carne e pesce posati per lui da qualche parte. Sospirai.
Presi un passo più spedito. Il sole non mordeva più, coperto a tratti da alcune bianchissime nuvole. Camminavo piano e godevo delle briciole di rara serenità che acchiappavo nell’aria come farfalle sperdute. Assaporavo il tutto inoltrandomi sul litorale semideserto. Giunsi a casa. Era vuota e silenziosa come la veranda di Giovanni. Non mi sorprese. Già la conoscevo. Tuttavia, quell’aria di dolce tranquillità che regnava dall’altra parte di qua non c’era, sostituita da un bel carico di rimpianto come una mancanza che non si lasciava colmare. Neanche il gatto Narciso venne a salutarmi. Non era il gatto di casa. Era il gatto di tutti. Un bel bastardone bianco e nero che in quel momento stava di sicuro ingroppando qualche graziosa micetta dei dintorni. Si mostrava soltanto quando la fame gli mordeva dentro.
Uscii sulla terrazza e mi lasciai cadere di peso sulla sdraio mezza aperta. La quale, per mia fortuna, resse all’urto. Era già capitato che mi si stringesse addosso con una presa da greco-romanista per poi richiudersi vigliaccamente come le valve di un’ostrica.
Sbadigliai e chiusi gli occhi. L’intenzione era quella di crogiolarmi al sole che si era fatto tiepido per via delle solite nuvolette passeggere che transitavano a batuffoli sotto di lui. Mi addormentai della grossa. Però durò poco. Al risveglio, che fu piuttosto violento per via del solito sole che si era liberato dall’impaccio delle nuvole passeggere e ora mi picchiava duro sul cranio, avevo fatto le cinque. Scaricai sulla testa una lunga doccia tiepida, mi rivestii e uscii ripercorrendo la strada a ritroso fino alla spiaggia.
Camminavo con piacere nella nascente frescura dell’imminente tramonto. Così, invece d’infilare la porta della veranda di Giovanni, continuai la passeggiata sul lungomare confondendomi tra la gente che faceva la stessa cosa che facevo io. Gradivo molto quell’anonimato in cui ero andato a cacciarmi. Lo sfiorare dei corpi, numerosi a quell’ora, i loro diversi profumi e odori, più femminili che maschili, che si arrampicavano lungo le narici mi facevano sentire vivo tra gente viva. Sensazione che trovavo vitalizzante poco frequentata dalle mie parti.
Tornai sui miei passi e mi presentai sulla porta della veranda. Speravo di trovare la bionda Serena seduta laggiù nell’angolo sopra il mare che mi aspettava per l’aperitivo serale insieme ai suoi occhi chiari, ai suoi riccioli biondi, al suo sorriso, sereno come il suo nome.
Serena non c’era. Giovanni uscì dal bar e mi venne incontro accompagnandomi al tavolo. Sedemmo.
“ Ti porto l’aperitivo ? “.
“ No “ .
“ Aspetti Serena ? “.
“ Sì “.
“ È passata poco prima che arrivassi tu. Ha buttato un’occhiata dentro e, non vedendoti, ha ripreso la camminata da sola. Andava via un po’ piano. Sembrava delusa. Vedrai che tra poco si rifà viva “.
“ Non c’è bisogno che mi consoli “.
“ E chi ti consola ? “.
“ Tu “.
“ Dicevo per informarti “.
“ Va bene “.
Serena non si fece viva e dovetti bere l’aperitivo in compagnia di Giovanni. Il quale era in vena di confidenze e me le confidò proprio tutte, credo. Non ultima la grana della ex moglie che bussava a denaro un giorno sì e l’altro anche.
I quattro sgangherati in pensione, stranamente, non si fecero vedere.
“ Siamo quasi all’ora di cena. Ti porto un minestrone tiepido. È venuto davvero buono, con tanta verdura dell’orto che ti sblocca le budella “.
“ Non sono mica stitico “.
“ Dicevo per dire “.
“ Va bene “.
Il minestrone era buono per davvero.
“ Complimenti alla cuoca ! “, dissi a Giovanni quando venne al tavolo asciugandosi le mani nel grembiule.
“ Tutto merito di Irene “, rispose.
“ È così brava anche in altre faccende ? “, gli domandai tanto per buttarla sullo scherzo.
“ Non saprei dire. Una volta, neanche tanto tempo fa, ho cercato di scavare un po’ dentro di lei. Stavamo in cucina e trovandomi davanti il suo bel culo piegato sul lavello, senza testimoni, ho allungato una mano per saggiarne la consistenza “.
“ E lei ? “.
“ Si gira mezza storta. Mi guarda e mi lascia fare per qualche secondo. Poi mi guarda ancora negli occhi con quell’espressione delle donne che non capisci mai dove va a parare. Stacca la mia mano dalla sua chiappa e dice: “Sei matto, Giovanni ? Non pensi a tua figlia, a tua moglie, a mio marito, a mio figlio ? “.
“ Mi venne voglia di risponderle come mai aveva tralasciato i nonni, ma poi ho lasciato perdere e ho alzato i tacchi “.
“ E lei ? “.
“ Lei è rimasta là, le mani dentro il lavello, mezza girata a guardarmi in faccia con quell’espressione delle donne che non capisci mai dove va a parare “.
“ E tu ? “.
“ Io cosa ? “.
“ Che cosa hai fatto ? “.
“ Indovina “.
Dopocena entrò parecchia gente. I più chiedevano un caffè, i bambini volevano il gelato. Giovanni, a minestrone slappato, mi aveva proposto un paio di mani a scala. Fermo là, con la pancia contro il tavolo, era già pronto a smazzare le carte che, nell’attesa, passava con perizia da una mano all’altra. Ma non ci fu verso. Lo chiamavano di continuo al bar e fuori. Cosicché, dopo un paio di colorite saracche smozzicate tra i denti mentre schizzava da un tavolo all’altro, rinunciò e si dedicò al servizio dei clienti.
Vacanzieri e turisti, uomini e donne. Tutti acchittati e vogliosi di avventurarsi nel mondo dispensavano fulminei sguardi a quanti parevano mostrare una parvenza di disponibilità.
“ Un paio di mani possiamo anche farcele, adesso che sembra arrivata la calma. Ho lasciato Irene al bar e qui fuori sono tutti serviti “.
Giovanni mi era ripiombato addosso col mazzo delle carte tra le mani. Sedette.
“ Non ho più voglia, Giovanni. Magari domani. Facciamo due chiacchiere, invece, con un bel limoncello davanti “.
Mi parve che l’idea gli piacesse.
“ Irene ! “, chiamò subito.
La morettona si sporse dalla porta del bar con una buona metà del suo capace busto.
“ Portaci la bottiglia di limoncello, quella della tua cantina, con due bicchieri “.
Era mia intenzione fare passare del tempo. Speravo che Serena si sarebbe fatta vedere. Al suo posto arrivò il limoncello. Ne bevemmo un paio di goccetti a testa. Poi un altro ancora. Serena non si mostrò e la cosa mi inversò. Nei miei giochi di fantasia speravo di stringere con lei un promettente rapporto di vicinanza. Mi pareva che le premesse ci fossero tutte. Di lei, però, latitava anche il profumo. Quando decisi che ne avevo le palle piene, mi alzai di scatto dalla sedia. Salutai Giovanni di volata, il quale mi parve avesse intuito il mio rovello, e me ne uscii dal locale con gli occhi incurvati verso la sua faccia. Giovanni mi seguì con lo sguardo per un lungo momento.
Fermo all’esterno della veranda mi si alzarono gli occhi a cercare il bianco balcone del quinto piano. Nel soggiorno splendeva la luce e parte di essa sfondava nel buio come certi aloni di un’esplosione.
Volsi gli occhi all’interno della veranda e scorsi Giovanni che mi filava ancora. Era fermo dentro la porta del bar. Sorrisi un momento perché avevo capito che quell’uomo si preoccupava dei miei sentimenti. A non farci tanto caso dava l’impressione di essere un sempliciotto, così bello tondo com’era. Uno che badava a far funzionare l’esercizio e poi basta. Io, però, avevo smagato che c’era dell’altro. Con le persone a cui teneva andava più a fondo. Faceva così anche con me. Conoscevo l’uomo da anni e, col tempo e le partite a scala e i discorsi di donne, era anche arrivato a confidarmi sbrendoli della sua precedente vita, di quando abitava in quel di Lombardia. Lui era originario della provincia di Milano e si era trasferito in Liguria dopo la separazione dalla moglie. Col denaro riscosso dalla cessione di un’attività nel settore metalmeccanico aveva rilevato lo stabilimento balneare, il bar e il ristorante in veranda. Il tutto funzionava piuttosto egregiamente a quanto mi pareva di capire.
Strappai gli occhi dagli occhi di Giovanni e dal balcone del quinto piano e mossi i primi passi verso casa. Per quanto mi riguardava, invece, ero capitato nel suo bar un sacco di anni prima. Dopo avere scambiato quattro parole attraverso il banco, mi aveva domandato da dove venivo. Saputo che ero milanese disse che lo era anche lui. Me lo comunicò con una certa enfasi, come se l’essere milanese costituisse per lui una nota di merito. Mi fece una certa tenerezza quella specie di ingenuo orgoglio localistico, del tutto immotivato. Risalente, forse, a motivi di spezzettamento geo-politico di un passato neanche tanto lontano. Tant’é. Da allora avevo fatto tappa fissa nel suo bar ristorante, anche per via della cucina. A me andava bene così. Ero un vedovo con una casetta a due passi dal mare e la sistemazione in un locale dove si mangiava bene e si spendeva il giusto mi sfagiolava a puntino.
Giunto a casa realizzai che ero stanco. Una spossatezza che provai appena entrato in casa. Sapevo il suo nome. Un nome che ben conoscevo per via di una frequentazione giornaliera. Si chiamava solitudine e si portava sempre dietro la stanchezza. O spossatezza, che sarebbe poi quasi la stessa cosa.
Mi spogliai e guadagnai il letto. Da sdraiato cominciai a fantasticare. Pensai ai miei figli che erano due. Maschio e femmina. Anche loro, al momento, stavano in vacanza da qualche parte. Entrambi ben piazzati nella vita. Il pensarli prima di addormentarmi era un invito nei confronti del sonno che, in genere, si presentava quasi subito. Infatti Morfeo mi accolse a braccia aperte appena girato l‘angolo del muro.
Quell’uomo strambo che i pensionati avevano soprannominato Strappacapelli non cessava di incuriosirmi. Per i modi e i comportamenti che esibiva al bar, il tic dei capelli, quegli sguardi laterali e accesi che regalava attorno a sé. Ma, soprattutto, per la storia del gabbiano. Mai mi era capitato di prestare occhi e orecchie a una storia simile. Va bene, nell’esistenza ti può succedere di venire a conoscenza delle cose più strampalate. Ma è il modo di affrontarle che può lasciare stralunati. Il modo col quale Strappacapelli aveva affrontato e affrontava quotidianamente l’avventura del gabbiano mi lasciava a bocca aperta. Com’è che l’aveva battezzato ? Ah, Prospero, dal Macbeth di Shakespeare, del quale ricordavo ben poco. E quel poco a spanne lunghe.
Così, senza farmi scoprire, presi a osservarlo di sottecchi, come farebbe un consumato detective alle chiappe di un pericoloso criminale. Quando entrava in veranda, sempre alle nove in punto, sempre compito e attento, sempre accompagnato da quel suo sguardo scivoloso che spalmava come colla sopra quanti lo osservavano, lo seguivo raggiungere il solito tavolo, quello accanto al mio. E poi sedere come un gatto. Senza fare rumore, intendo. Diceva buongiorno per primo torcendo leggermente il capo sopra il busto appena chinato. Possedeva una voce dal timbro tenorile, piena e bella che sembrava non appartenere al soggetto che era. Quindi beveva il caffè che Giovanni gli aveva scaricato davanti ancora prima che lui lo chiamasse per passargli l’ordinazione. Beveva il suo caffè senza averlo zuccherato, a piccoli sorsi rumorosi, gustandolo palesemente, gli occhi fermi lontano, forse all’orizzonte.
All’inizio delle mie osservazioni mi sarei aspettato che, nell’atto del bere, tendesse all’esterno il mignolo della mano che reggeva la tazza, in genere la destra, in quel ridicolo modo che alcuni adottano per darsi un tono. Che poi è, in sostanza, il tono dello stronzo. Credevo fosse il tipo adatto a manifestazioni del genere. Tuttavia non glielo vidi mai fare. Lui sorbiva il caffè nell’identica maniera che usavo io. Tranne l’assorbimento dei piccoli sorsi rumoreggianti. Io ingollavo il mio caffè in un colpo solo, quasi a strozzagola.
Dopo il caffè accavallava strettamente le gambe, chinava un poco il capo a osservare il tavolo e cominciava a strappare inesistenti capelli inopinatamente presenti sulla bronzea pelata, con quel gestire stizzito che Giovanni mi aveva così bene descritto. Trascorrevano così due o tre minuti. A quel punto io cessavo la mia osservazione e prendevo a leggere il quotidiano. Non mancavo, tuttavia, di stortargli furtive occhiate di tanto in tanto. C’era però qualcuno, non lontano, che aveva preso a osservarlo con insistenza come avevo fatto io fino a quel momento. Era il gruppetto dei pensionati fancazzisti i quali, a turno, gli regalavano ridenti occhiate.
Non era frequente il caso che mi rivolgesse la parola. Però capitava. Allorché mi si rivolgeva cominciava sempre con precisi commenti su argomenti specifici. Evitava accuratamente la politica e il sesso. Poi, in assenza di interventi da parte mia, che erano la norma, cadevano discreti silenzi che lui impegnava dispensando occhiate sul circondario. Una volta soltanto mi parlò di sé. Sollevò la mano sinistra dal tavolo e mostrò l’anulare attorno al quale splendeva un bellissimo anello.
“ Un caro ricordo di famiglia “, disse carezzandolo con due dita come si farebbe con la testa di un gattino.
Lo guardai. Era davvero un gran bel gioiello. Mi meravigliò alquanto quel suo inatteso parlare di sé.
“ Molto bello “, commentai, tanto per tirarlo in quarta e spingerlo a sbottonarsi.
Infatti lui abboccò subito. Si girò per intero verso di me e cominciò a raccontare. Era chiaro che teneva moltissimo a quel gioiello.
“ Pensi che arrivò nelle mani della mia famiglia nel primo Settecento. Pare, tuttavia, che sia di fattura precedente, ma non si conoscono altri particolari. È di oro bianco. Quindi non è onestamente credibile che fosse così antico. Apro una piccola parentesi: sembra che l’oro bianco a quel tempo non fosse ancora conosciuto. Curioso, eh ? La pietra è un rubino purissimo, pietra legata al sangue e alla sessualità. Monile prediletto da streghe e fattucchiere … “.
Lo rigirò sull’anulare. Il dito ci ballava dentro. L’osservò.
“ Non lo tolgo mai, in nessuna circostanza. Dormo con lui al dito. È un oggetto dal quale non mi separerò mai ! “.
Quest’ultima osservazione gli sortì di bocca con irrefrenabile impeto. Tanto da lasciarmi quasi sbigottito. Volsi la faccia al mare per evitare di mostrare il mio sbalordimento. Quando mi rigirai lui aveva ripreso a leggere il giornale.
Verso le dieci arrivò il momento dei pensionati. Come a teatro era a quell’ora che cominciavano a esibirsi. Lo facevano per il piacere di recitare di fronte alla platea dell’intera veranda. In parole povere e dirette una smaccata esplosione di senile narcisismo. Si diedero subito a fare casino come dei ragazzi. Si girarono a salutarmi a piena voce quasi mi avessero notato solo in quell’istante. Poi si alzarono tutti insieme e presero a rumoreggiare con le sedie, a parlare tutti insieme, a indicare a braccia tese le ragazze in costume da bagno che scendevano ai lettini sulla spiaggia, a fare aperti commenti sulle chiappe di qualche signora in là con gli anni la quale, spesso, pareva gradire quella forma di interessamento poco ortodosso. Insomma, si trattava di un teatro che la platea della veranda si aspettava di vedere quasi tutte le mattine a quell’ora. I fancazzisti salutarono anche il professor Strappacapelli. Con esagerata deferenza, a mio avviso. Per dire, piegarono il busto all’unisono come un drappello di soldati di fronte al tenente di picchetto. Capii al volo che si trattava di una chiara presa per il culo. L’interessato non capì. Almeno credo. Rispose compunto al corale buongiorno e riprese la lettura del giornale. Poi si distrassero in blocco e chiamarono Giovanni a più voci senza che ce ne fosse alcun bisogno. Giovanni stava già accanto al loro tavolo con un bel sorriso in faccia. Lui gradiva la loro esibizione. Credo che la considerasse utile alla pubblicità del suo locale. A quel punto i pensionati sedettero e ordinarono cappuccio e brioche.
Capitava che mi alzassi, come feci in quel momento, e scendessi alla spiaggia. Ciabattavo tra sdraio e lettini fino alla postazione di Serena, in prima fila sotto il suo ombrellone verde. Sembravo uno che si trovasse lì per caso. Che pirla ! Non appena mi scorgeva si alzava e sorrideva venendomi incontro. Mi affiancava subito in una lenta passeggiata sulla battigia. Si parlava di tutto. Era una donna colta. Leggeva molti romanzi. Con quei suoi riccioli biondi che le cadevano davanti agli occhi ad ogni girare del capo. E lei li tirava su, piano, dietro le orecchie, in un mezzo sorriso che pareva fatto apposta per me. Ci vedevo un piccolo futuro insieme a lei. Magari solo di un mese, le vacanze al mare e poi via, tutto finito. Comunque ci tenevo che ciò accadesse. Mi piaceva. Si può dire che rappresentava il mio ideale di donna. O quasi. Snella. Una falsa magra, direi. Non alta. Tette piccole e un bel culetto arzillo. Epidermide chiara e, ai piani inferiori, un pube rilevato così bene che pareva scolpito, al quale gettavo sguardi furtivi appena mi era possibile. Sguardi che indugiavano sui vaghi bordi della spartizione che appariva ogni tanto tra i suoi incerti passi nella sabbia sfuggente. Lei aveva mangiato la foglia e credo le facesse piacere quel mio cercarla nei suoi luoghi segreti.
Verso mezzogiorno il professor Strappacapelli prendeva a filare il Rolex d’oro che teneva al polso. Lo filavo anch’io, ma per un diverso motivo dal suo cercare l’ora. Mi sono sempre piaciuti gli orologi. E quello era un Oyster Perpetual d’oro. Una cosetta da parecchie migliaia di euro. Tuttavia non era il valore monetario ciò che a me interessava. Lui, invece, in quei momenti cercava soltanto di conoscere l’ora. Gli gettava sopra continue occhiate. Finché, intorno a mezzogiorno, si alzava di scatto dalla sedia e scivolava fuori dal tavolo.
“ È arrivato ! “, strillava.
Non era chiaro verso chi o che cosa urlasse, ma era certo qualcuno appostato nei paraggi che si celava agli sguardi.
Poi sgattaiolava verso l’uscita, gli occhi puntati al cielo. Un istante dopo mi scattava dentro una voglia uguale alla sua. La voglia di alzare gli occhi al bianco palazzo di là della strada, lassù dentro tutto quel troppo biancore. Ed eccolo il maestoso uccello che planava dolcemente in cerchi sempre più ravvicinati verso il balcone del quinto piano. Le sue grandi ali possedevano lo stesso colore dell’intero palazzo, tanto che vi si perdevano quasi dentro, fondendosi in esso a diventarne parte integrante.

Sergio Cioncolini, Vacanza di sangue, Edizioni Pendragon, 125 pagine, € 15