Chi sta giocando ancora con la fantascienza? Questa letteratura di genere ha da tempo lasciato la sua stagione d’oro: a metterla in crisi forse è stata la realtà odierna, che corre troppo veloce verso un futuro probabile incubo. O no? Un lettore, specie se caotico, non deve avere troppe certezze… (ammesso e non concesso che ce ne abbiano gli scrittori).

Da ragazzo sono stato un divoratore di classici della fantascienza. Poi, a un certo punto, mi sono sentito saziato e ho smesso di colpo come ho fatto con le sigarette… Ma ho continuato a leggere i romanzi del grande Kurt Vonnegut, un meraviglioso umorista che giocava a mascherarsi da scrittore di science fiction. Ma in realtà era molto di più.

Ian McEwan non è la stessa cosa: scrittore fertile, colto e raffinato (da buon britannico, più sottilmente ironico che umorista), si può forse dire che abbia giocato con la fantascienza nel precedente romanzo Solar, dove un fisico premio Nobel, egocentrico e sessuomane, trova quasi per caso il modo per salvare il nostro pianeta e insieme la sua vacillante reputazione. Per questo suo nuovo lavoro, Macchine come me, non si può parlare di fantascienza ma piuttosto di ucronia, o se preferite di fantastoria, uno sport molto diffuso tra gli scrittori contemporanei che si basa sull’ipotesi che la Storia avrebbe potuto prendere strade diverse. Come McEwan ha dichiarato in una recente intervista, «le grandi svolte spesso sono conseguenza di piccole coincidenze, non di una logica ineluttabile. Basta cambiare un tassello e la Storia avrebbe preso un altro corso».

In base a queste convinzioni, ambienta il suo nuovo romanzo in un 1982 decisamente diverso da quello che è stato: l’Inghilterra esce sconfitta dalla guerra con l’Argentina e precipita in una tremenda crisi; il leader laburista euroscettico muore in un attentato; il grande scienziato Alan Turing (che già negli anni 50 prevedeva l’avvento di macchine intelligenti) non si è suicidato mangiando una mela avvelenata ma continua a vivere e dirige un importante laboratorio dove produce robot sempre più perfetti.

Tutto quest’improbabile subbuglio (ma nulla si può negare alla fantasia di un romanziere) è destinato a fare da sfondo a una complessa vicenda con 3 principali protagonisti: Charlie, Miranda e Adam, cioè lui, lei e l’altro. Niente di più classico, se non fosse per… l’altro: che è un umano artificiale, una macchina perfetta, bellissimo, bravissimo, intelligentissimo e per molti aspetti anche utilissimo (si occupa di tutto, lava i piatti e gioca in borsa con notevole successo). Ma c’è un problema… A differenza degli umani in carne ed ossa, il suo formidabile apparato logico gli permette di cogliere al volo la differenza fra verità e menzogna. A qualsiasi essere umano può capitare di farsi ingannare, di prendere per vera una bugia ben raccontata da un altro essere umano. Invece Adam, il nostro quasi perfetto automa angelico, opera ben diversamente: a lui nulla sfugge; e naturalmente reagisce con la rigidità morale di una macchina. Per noi umani esistono menzogne innocue o addirittura utili in certe situazioni, mentre per Adam certi margini di elasticità non esistono. Differenza non da poco, che avrà conseguenze drammatiche.

Avevo letto solo le prime 20 pagine quando già era affiorata la prima perplessità: davvero era necessario introdurre tutti questi sconvolgimenti fantastorici per progettare e scrivere un romanzo sull’intelligenza artificiale? Un povero lettore avrà ben diritto a farsi certe domande… E uno scrittore di talento può dare la risposta quando vuole, magari una quarantina di pagine dopo, nell’apertura del 3° capitolo, quando Charlie è nella sala d’attesa di un ambulatorio medico (un’atmosfera mirabilmente descritta) e vede un vecchio idiota che starnutisce senza mettersi la mano davanti alla bocca e spargendo germi in quantità. Da lì parte una bizzarra riflessione sul fatto che solo alla fine dell’800 il lavoro del chimico Louis Pasteur e colleghi mise in allarme il mondo della sanità sulle gravi responsabilità dei germi, mentre già nel 1673 un oscuro olandese li aveva individuati al suo microscopio ma nessuno lo aveva preso sul serio. Il che permette una fulminante conclusione: “Il presente è la più fragile delle strutture improbabili. Poteva essere diverso”.

Mc Ewan ama introdurre nelle fitte trame dei suoi romanzi numerose digressioni come questa. Digressioni talvolta geniali e stimolanti, che anche qui spaziano dalla finanza all’antropologia, dalla biologia alla fisica quantistica. A un lettore disattento, impaziente solo di vedere come finisce la storia, può sembrare persino irritante; ma commette un errore grossolano. Molti grandi romanzi di tutti i tempi contengono digressioni meravigliose, che spesso si dimostrano indispensabili allo sviluppo della trama. Certo lo scrittore inglese ne introduce parecchie, tanto da stimolare una nuova perplessità: Charlie, il protagonista-narratore è un giovane informatico, dotato di sentimenti e di appetiti, piuttosto consumista e gaudente, con un buon livello culturale ma non paragonabile a quello dell’autore. Il quale, a volte, sembra prendere in mano lui la narrazione che aveva affidato al personaggio. Ma sono cose che capitano.

Capita persino (esattamente a pagina 139) che l’autore metta in bocca al suo androide una sorprendente teoria del romanzo: una forma letteraria fondata soprattutto sugli inganni, sulla violenza e sull’incomprensione del prossimo, ma che diverrà obsoleta (profetizza Adam) “quando il connubio tra uomini, donne e macchine sarà completo”. Si può essere più o meno d’accordo con il pensiero di questa creatura artificiale ossessionata dall’opposizione verità-menzogna, ma una cosa è certa: questa è la prima teoria della letteratura prodotta da una macchina.

Non voglio dire troppo della trama (sarebbe una grave scorrettezza), ma qualcosa devo aggiungere sui 3 protagonisti. Charlie e l’androide Adam, innamorati entrambi di Miranda, sembrano 2 creature speculari, tutti presi dal presente e con ben poco alle spalle. Il passato della ragazza è invece fosco e assai problematico. Così i 2 rivali si alleano nel tentativo di liberare Miranda dai suoi fantasmi. Ma è un’alleanza che non può durare, anzi è destinata ad andare incontro a ulteriori guai. E saranno guai per tutti e 3, anche se molto diversi.

Nel finale emerge, come un deus ex machina, il “sopravvissuto” Alan Turing che strapazza Charlie per aver accolto nel suo mondo imperfetto la creatura artificiale e averlo usato come un giocattolo. Anche il grande scienziato sa di dover perfezionare ulteriormente i suoi modelli, perché si adattino meglio alla vita accanto agli umani (non a caso molti dei suoi prototipi si stanno suicidando); ma è convinto comunque che posseggano già una coscienza. Sì, proprio quella cosa che le neuroscienze non sono ancora sicure di sapere bene cos’è…

Accidenti Mr. McEwan! Devo ammettere che alcuni suoi libri precedenti mi hanno regalato più emozioni (penso a Bambini nel tempo, L’amore fatale, Chesil Beach), mentre questo a tratti mi ha sconvolto. Con la sua consueta maestrìa stavolta ha spinto i suoi fedeli lettori in un oceano tempestoso di riflessioni, che vanno ben oltre la vicenda di Charlie, Miranda e Adam. Oltre la globalizzazione, la fine del lavoro, il cambiamento climatico, quanti altri futuri probabili o improbabili si possono ipotizzare prima dell’estinzione della nostra specie? Certo, se ogni utopia nasconde un incubo, anche l’ucronia non scherza niente.

Ian McEwan, Macchine come me, Einaudi, collana Supercoralli, 296 pagine, € 19.50

Foto: © Annalena McAfee
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