Gentili lettori,
questa che vi propongo si presenta come una favola per ragazzi. Una favola che, tuttavia, propone problemi per adulti e spiega, seppure in termini approssimativi, il funzionamento di talune parti delle aree più intime (inconscio) della nostra psiche. Ripeto, non è che una favola, ma non è affatto per ragazzi. La riporto qui, così come l’ho letta e tradotta da una dispensa universitaria per studenti del 1° anno di Psicologia. Spero di farne una lettura gradita per tutti.

Franco era proprio soddisfatto. Meglio sarebbe usare l’espressione “gratificato“. Stava infatti iniziando a vivere la più bella vacanza della sua vita, una vacanza desiderata come null’altro mai aveva desiderato. Il padre, al termine dell’anno scolastico, aveva affittato un camper e con quello, attraverso Francia e Spagna, si erano spinti fino in Africa visitando luoghi selvaggi e incontrando popoli primitivi e animali d’ogni specie, anche feroci. Il padre non era da meno nel godersi a fondo una tale vacanza che anch’egli desiderava vivere fin da ragazzo. La mamma e la sorella Cristina avevano preferito rimanere in Italia a fare vita da spiaggia e ciò raddoppiava in Franco l’orgoglio di trovarsi, lui solo, in compagnia del padre nel bel mezzo dell’Africa misteriosa. A bordo del camper gli sembrava di trovarsi dentro una comoda casetta dove non mancava nulla. Una specie di guscio materno, per intenderci. I mobiletti pensili erano stracolmi di viveri i più diversi e ci si poteva permettere anche il lusso di cucinare un piatto di spaghetti in pieno deserto. I capaci serbatoi dell’acqua sul tetto venivano regolarmente riempiti ad ogni sosta ed era compito di Franco accertarsi che fossero sempre pieni. C’era una capace bombola di gas agganciata sul retro e, all’interno, angusta ma c’era, perfino la doccia e tutti i servizi essenziali.

Viaggiavano prevalentemente di notte e al mattino presto, quando il sole è ancora basso sull’orizzonte. Nelle ore più calde della giornata sostavano presso qualche oasi indicata nella guida e scattavano decine di fotografie, oppure visitavano i villaggi indigeni e raccoglievano minerali e fiori esotici. Spesso nei mercatini dei centri più grandi facevano man bassa di frutta locale, soprattutto datteri, molto più grandi di quelli che generalmente troviamo nelle nostre città. Al tramonto esploravano i dintorni allontanandosi per brevi tratti dal camper. A volte giungevano fin quasi a toccare gli animali selvatici, quelli non pericolosi s’intende. I quali, certo abituati alla presenza di turisti in transito, li degnavano di qualche sbattimento di ciglia.

Un mattino presto, già ricco di sole, percorrevano il deserto del Mali lungo una interminabile pista di sassi bianchi e finissima sabbia. Ballavano mica male. Erano ormai sulla via del ritorno e non mancavano che pochi giorni alla partenza del traghetto che li avrebbe riportati a Gibilterra. Franco, seduto a fianco del padre, chiacchierava di tutto pur di non addormentarsi. Diritto davanti a loro non c’era che la bianca pista che tagliava in due il deserto nel quale si aprivano innumerevoli spaccature per via della prolungata siccità. Non cresceva un filo d’erba, soltanto pietre d’ogni forma e dimensione. Qua e là sperduti cespugli essiccati.

“Come sarebbe bello, adesso, entrare in un fresco villaggio di montagna…“, sospirò Franco, “…con quelle casette di legno, tutte con il giardinetto davanti…“. Il padre acconsentì col capo.

Di colpo sembrò ad entrambi che la pista si restringesse e poi si stortasse in una curva improvvisa. Il padre sterzò bruscamente e a malapena riuscì a mantenere il camper sulla carreggiata. Padre e figlio si guardarono in volto sorpresi perché non avevano ben compreso ciò che era capitato loro un istante prima. Nel frattempo il paesaggio era radicalmente mutato. Si scorgevano ora grandi alberi simili agli abeti e cespugli verdissima qua e là. Anche la temperatura era calata. Faceva addirittura freschino.

Giunsero presso un ponte di assi che superava un torrente di acque chiare. Oltre il ponte sostarono e il padre di Franco esaminò a lungo la carta geografica. “Qui non c’è nessun fiume, né ponti…!“, esclamò stralunato.

Oltre il ponte cominciava un bosco, fitto di altissimi alberi. Quasi di malavoglia procedettero sulla strada ed entrarono nel bosco. Ne percorsero lentamente alcune centinaia di metri. All’improvviso gli alberi si diradarono per finire presto sul limitare di una vasta radura. E ciò che si parò davanti agli occhi di entrambi li lasciò senza parole e senza pensieri ad eccezione di una costernata curiosità. Davanti a loro sorgeva un villaggio di piccole case circondate da orti, campi coltivati, vialetti alberati. Videro anche parecchie persone che si muovevano attorno affaccendate. Due uomini andarono loro sveltamente incontro. Venivano dal fondo di quella strada che pareva non avere fine. Padre e figlio smontarono dal camper con palese diffidenza. Era l’imbrunire.

“Benvenuti!“, esclamò uno dei due uomini quando furono presso a loro. Apparivano entrambi molto vecchi, con barba e capelli lunghissimi e bianchi.

“Grazie…“, rispose il padre di Franco, “… ma dove siamo ?“.

“Dategli voi il nome che preferite“, rispose il secondo uomo.

“Ma qui, sulla carta, non c’è segnato nulla…!“, ribattè Franco.

I due uomini sorrisero lanciandosi un’occhiata, ma non diedero alcuna risposta. Anzi, non parlarono più. A gesti li guidarono verso una casetta di mattoni rossi lasciandoli in compagnia di un terzo uomo, ancora più vecchio di loro. A quel punto Franco si rese conto di un fatto stranissimo. Tutti, in quel luogo, oltre a portare barba e capelli lunghissimi e bianchi, indossavano abiti antichi. Abiti che lui aveva visto nei film sull’Ottocento. Si confidò sottovoce col padre il quale gli rispose: “È vero, sono abiti dell’Ottocento. Ma anche le case sono di quel secolo. E poi non esiste luce elettrica, né automobili o altri veicoli a motore… Forse stiamo sognando. Però mi sembra gente tranquilla. Speriamo bene…“.

“Dormirete qui. Domani dovrete andarvene“, disse il primo uomo.

“Ma dove siamo?! E voi, chi siete?!“, domandò ancora Franco.

L’uomo sorrise come già avevano fatto gli altri due in precedenza, ma non rispose. Li sistemò in una cameretta quindi filò via rapido e silenzioso. Padre e figlio cominciavano ad avere un po’ di paura, che aveva rapidamente sostituito il sospetto iniziale. Si affacciarono all’unica finestrella della stanza e osservarono all’esterno.

“Papà, non c’è nemmeno una donna tra questa gente!“, esclamò Franco.

“È vero…“, rispose il padre.

A quel punto la paura di entrambi prese a crescere. Per vincerla presero a guardare i vialetti esterni che, al momento, apparivano deserti, mentre in tutte le finestrelle prese a brillare una luce gialla. Poi anche i vialetti furono illuminati dalla stessa luce, la quale veniva da strane gabbiette metalliche appese alle cime dei lampioni. Franco alzò gli occhi al soffitto della camera e vide pendere dal soffitto una gabbietta del tutto simile a quelle esterne. Montò sopra una sedia e la studiò attentamente. Si trattava di una gabbietta apparentemente di filo di ferro, di quelle che si usavano per contenere gli uccellini. Dentro, però, scorse soltanto alcuni ragni, piuttosto grossi, con un’enorme pancia gialla. Eccitatissimo, informò subito il padre il quale, in un angolo, esaminava un lungo bastone alla cui sommità era infilato un sottile ago.

In quell’istante bussarono alla porta. Era il vecchio di prima che recava in mano un vassoio con del cibo: due pagnotte, due piatti che contenevano una sorta di minestra rossastra nella quale sguazzavano alcuni pezzetti di carne.

“Ora vi accendo la luce“, disse il vecchio.

Afferrò il bastone dall’angolo della stanza e si portò sotto la gabbietta appesa al soffitto. Quindi cominciò a pungere delicatamente le grosse pance dei ragni. Le quali si accesero all’istante e sparsero all’intorno una discreta luce di un denso colore giallo.

“Hanno una durata di circa mezzora“, spiegò, “poi si spengono. Se desiderate altra luce, pungeteli di nuovo. Attenzione, però. Guai a pungere i ventri con violenza! Si romperebbero e ne uscirebbe quell’umore giallo che vi è contenuto. Tale umore, a contatto dell’aria esterna prenderebbe a fumare. Un solo fiato di quel fumo vi ucciderebbe all’istante“. Ciò detto uscì lesto e silenzioso.

Padre e figlio non toccarono cibo, né punsero i ventri quando la luce mancò. Era tale il loro sbigottimento che sedettero sui letti rimanendovi immobili come statue di cera. Ma tanta era la stanchezza che dovettero, loro malgrado, mettersi a letto, dove crollarono entrambi in un sonno agitatissimo.

L’indomani mattina i due vecchi del giorno avanti si presentarono alla porta.

“È necessario che ve ne andiate“, disse il primo.

“Non c’è tempo da perdere“, aggiunse il secondo.

Padre e figlio non se lo fecero ripetere due volte. Si rivestirono in fretta e furia e seguirono i due lungo alcuni vialetti. Transitarono presso un campo coltivato. A prima vista sembrò loro frumento, ma non del tutto. C’era qualcosa appeso in cima ai lunghi steli. Qualcosa che si muoveva, a differenza delle pannocchie.

“Che cos’è?“, chiese Franco.

“Quella è una piantagione di arinfrumento“, rispose il primo vecchio.

A ben guardare capirono che si trattava di rigogliose spighe di giallo frumento le quali, al posto di normali pannocchie, reggevano dei grossi pesci che scodavano di tanto in tanto. Padre e figlio non si raccapezzavano più. Il secondo vecchio al vedere il loro sbigottimento, si sentì in dovere di fornire qualche chiarimento:

“Sono aringhe e maturano col frumento. L’arinfrumento è molto nutriente e possiede un gustoso sapore. L’aringa viene agganciata alla pannocchia quando è ancora poco più di un avannotto e cresce insieme ad essa. L’unico problema che abbiamo è quello che le aringhe non si stacchino quando piove. L’acqua, infatti, le mette in grande agitazione. Capita così che prendano ad oscillare, col pericolo che parecchie di esse si stacchino prima di essere giunte a maturazione completa“.

“Ma si può sapere dove ci troviamo?“, urlò il padre di Franco bloccandosi di fronte ai due vecchi.

“Lo hai già saputo“.

Erano così giunti presso il camper. Padre e figlio gli lanciarono un’amorevole occhiata quasi fosse un parente prossimo.

“Ora andate“, dissero insieme i due vecchi, “e non volgetevi indietro perché non vedreste altro che deserto e sassi. Questo luogo esiste soltanto per chi desidera ardentemente di viverlo e voi, ora, desiderate soltanto andarvene“.

Padre e figlio montarono a bordo del camper e ripartirono senza dire una sola parola. Entrambi sentivano in corpo una forza misteriosa che li spingeva ad abbandonare in fretta quel luogo di favola.

“Appena oltre il ponte i vostri cellulari riprenderanno a funzionare“, strillò uno dei vecchi mentre loro scappavano via. Se ne erano completamente scordati. E così accadde. Un metro al di là del ponte padre e figlio sentirono qualcosa frullare nelle loro tasche.

Furono di nuovo sulla bianca pista del deserto. Laggiù, per la seconda volta, parve ad entrambi che la strada si restringesse bruscamente e poi si stortasse di nuovo in una curva improvvisa. A quel punto sembrò loro di svegliarsi dopo un lungo sonno.

“Deve essere stata una specie di miraggio. Tutto quel sole e quel caldo e la sabbia piena di sassi…”.

“Non me lo spiego, papà… “, replicò Franco, “c’è stato qualcos’altro insieme… “.

“Che cosa? “.

“Qualcosa che non so dire. Tuttavia credo che non ci sia null’altro da spiegare. La natura selvaggia così diversa dal nostro mondo, i luoghi, la gente, i costumi, tutta ‘sta favola impossibile, hanno provocato in noi un potente sonno e in esso un altrettanto potente sogno che altro non era che il forte desiderio di esserci in un mondo simile a quello. Ricordi: “I sogni son desideri… “.

Fra i romanzi di  Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).