«Non l’ha ascoltato nessuno». Parola di Lou Reed. Che ha aggiunto: «Ma c’è. Esiste. E sarà per sempre l’inavvicinabile quintessenza del punk». Inciso nel settembre 1967 agli Scepter Studios newyorkesi, prodotto da Tom Wilson e pubblicato il 30 gennaio 1968, White Light/White Heat raggiunge il 199° posto della classifica di Billboard rimanendoci per 2 settimane. Viene ignorato, il Black Album dei Velvet Underground che non vogliono più far marchette con altre “femmine fatali” tipo Nico. Per eternizzarsi anche con questo ellepì bastano e avanzano Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker che è l’esatto opposto del fatale.

Neri come la pece. Tossici di suoni dissonanti e spossanti. Monocromatici come la copertina del disco: se quella del Banana Album era bianca, questa è nera da non poterci immaginare proprio niente dentro. E invece: se la inclini in controluce, nell’angolo in basso a sinistra intravedi un teschio trapassato da un coltello. L’ha fotografato Billy Name con la benedizione di Andy Warhol ed è il tatuaggio sul braccio destro di Joe Spencer, protagonista del film Bike Boy girato da Andy. In Inghilterra, nel 1971, l’album esce con una copertina che non c’entra nulla: foto in bianco e nero scattata da Hamish Grimes a una pattuglia sfuocata di soldatini.

White Light/White Heat è più Cale che Reed. Lou avrebbe preferito sonorità sì dark, ma addomesticate in forma di canzoni (anti-sperimentali: come quelle che di fatto scandiranno The Velvet Underground e Loaded, 1969 e 1970, dopo che Cale sarà uscito dal gruppo sbattendo la porta). Ma intanto è il gallese a stravincere mettendo sul piatto i suoi esperimenti in free form e architettando composizioni claustrofobiche e dilatate come la declamatoria, incalzante The Gift; la salmodiante, semi catatonica Lady Godiva’s Operation; la cacofonica, squarciante I Heard Her Call My Name ma soprattutto Sister Ray, 17 minuti e 27 secondi di puro delirio in 3 accordi (do, fa, sol) dove a imporsi è l’improvvisazione (se Lou Reed aveva ascoltato e apprezzato il jazz di Ornette Coleman, durante l’esecuzione John Cale vomita rumore assecondato dai feedback chitarristici dello stesso Lou e di Morrison).

Fra le tante efferatezze che nei testi titillano l’umana alienazione e le paranoie metropolitane, c’è spazio per l’anfetaminico rock di White Light/White Heat (con Reed che tortura i tasti del pianoforte) e per l’insospettabile orecchiabilità melodica di Here She Comes Now.

Questa gemma ostica e affascinante si è rimaterializzata nel 2013 in una Super Deluxe Edition di 3 Cd con la versione stereo del disco più varie alternate version: da Guess I’m Falling In Love strumentale, alle take di Hey Mr. Rain e Beginning To See The Light; la versione mono; The Gift vocal e instrumental e la registrazione del concerto del 30 aprile 1967 al Gymnasium di New York (1 mese dopo l’uscita di The Velvet Underground & Nico) con 5 pezzi in scaletta: Booker T., I’m Not A Young Man Anymore, Guess I’m Falling In Love, I’m Waiting For The Man, Run Run Run e la prima esecuzione in assoluto di Sister Ray. Ovviamente chilometrica.

The Velvet Underground, White Light/White Heat (1968, Verve)