Un cantante e bassista dal ciuffo ribelle e dal volto cinematografico, che si ispira a Bob Dylan e a Jim Morrison utilizzando come pseudonimo il nome generico che in America identifica le persone sconosciute o protette da anonimato. Una poetessa e scrittrice beat di origini irlandesi e cecoslovacche a cui piace vivere sul filo del rasoio: irregolare, spiazzante, sempre contro corrente. Un chitarrista platinato (come la sua Gibson) dal ghigno imperturbabile e beffardo che ama il rockabilly e vanta in curriculum una collaborazione con Gene Vincent. Un batterista abituato ai fraseggi eleganti del jazz e fortemente attratto da talenti eccentrici come Captain Beefheart.
Tra i mammasantissima del punk californiano dei primi anni 80, gli X alias John Doe, Exene Cervenka, Billy Zoom e D.J. Bonebrake sono un quartetto quanto meno anomalo e fuori dagli schemi. Tanto da folgorare una vecchia volpe come Ray Manzarek dei Doors, che dopo averli ascoltati suonare Soul Kitchen una sera al Whisky a Go Go di Los Angeles si propone come produttore dei loro dischi. I primi 2 sono bombe incendiarie, ma arrivati al 1982 e al 3° capitolo, Under The Big Black Sun, Doe (che con la moglie Exene firma tutti i pezzi originali della band) vuole dare una sterzata al percorso: «Il punk rock lo avevamo già suonato. Era arrivato il momento di allargare le dimensioni della nostra musica».
E così è: le canzoni di quel disco, realizzate di nuovo con Manzarek alla console, non porteranno loro la fama e il successo di massa da molti pronosticato («Pensai che il problema dovevo essere io», dirà Cervenka, sicuramente la meno dotata di talento musicale e non esattamente una interprete avvezza al bel canto) ma gli avvicineranno una ampia fetta di pubblico “alternative rock” che con il punk non aveva mai avuto molto a che fare. Merito di una produzione asciutta e pulita, di un suono corposo e preciso ma soprattutto di pezzi che evocano perfettamente il clima di una Los Angeles attraversata dal mal di vivere, una megalopoli malata e inquinata su cui incombe un grande sole nero, specchio di una inquietudine e di una alienazione che abbracciano una intera generazione. E su cui aleggia, intenso e percepibile, l’olezzo della morte. Anzi, di 2 morti in particolare: quella di Mirielle, sorella di Exene vittima di un incidente automobilistico una sera dell’aprile del 1980 mentre si dirige al Whisky a vedere il gruppo alla vigilia del suo debutto discografico; e quella di Darby Crash, amico e cantante dei Germs che si toglie la vita con una overdose di eroina nel dicembre dello stesso anno quando ha 22 anni appena.
Cervene e Doe incassano il doppio, durissimo colpo a fatica, ma insieme agli altri X reagiscono facendo branco. Sono loro, il branco di lupi affamati di cui cantano nel brano che apre il disco, The Hungry Wolf, le voci della coppia che si rincorrono come fossero quelle di Paul Kantner e di Grace Slick dei Jefferson Airplane 10 anni prima e 600 chilometri più a Sud, a San Francisco, srotolandosi su un tappeto di tamburi di guerra e di secchi riff chitarristici a mitraglia, mentre Zoom ulula come un animale selvatico sullo sfondo. È un incipit fortissimo, memorabile, che ti risucchia subito dentro il vortice di un disco scritto come fosse un romanzo noir in cui si mescolano amore, sesso, infedeltà, violenza, rimpianto, rabbia, vita da strada, esistenzialismo, poesia, riflessioni filosofiche e passione romantica.
Motel Room In My Bed è rockabilly anfetaminico imbottito di speed, Vincent e gli anni 50 proiettati in un presente frenetico e accelerato mentre Doe canta di squallidi alberghi con le lenzuola di plastica in cui coppie presumibilmente clandestine consumano amplessi occasionali e veloci. Subito dopo è la voce esausta e fragile di una Cervenka magnificamente stordita a fare i conti con il suo senso di colpa cattolico e a lavare in pubblico i panni sporchi di un adulterio commesso dalla sorella, un “amore immacolato” sfregiato dalla lama di un coltello e vissuto tra fughe in auto sotto lo sguardo della Vergine Maria: in Riding With Mary il ritmo rallenta e si imbambola mentre la chitarra elettrica di Billy si avvita in un giro ipnotico, allarmante e penetrante (nella versione pubblicata su singolo si sente anche l’organo di Manzarek).
È uno degli architravi del disco, il ricordo senza filtri e senza sconti di Mirielle che poi si addolcisce nei pezzi più sentimentali e melodici della raccolta: in Come Back To Me, una ballata terzinata d’altri tempi, Doe convince il poliedrico Zoom a suonare un sassofono malinconico e notturno mentre Exene elabora il lutto familiare scrivendo un testo tenero e crudo che sembra strappato dalla pagina di un diario; mentre Dancing With Tears In My Eyes, un reperto della Tin Pan Alley degli anni 40 che la Cervenka aveva scovato in un vecchio disco di Leadbelly, diventa qui un nostalgico ballabile ambientato in un ipotetico locale di confine tra il Messico e la California. Solitudine, sospetto e gelosia sono temi ricorrenti e anche Doe se ne prende la sua parte, mentre fra le scariche chitarristiche e la melodia sinuosa di Blue Spark contempla le scintille bluastre prodotte dagli autoscontri di un luna park.
A parte la concisione estrema delle canzoni, per lo più condensate in 2-3 minuti di durata; e l’intensità febbrile delle performance, il punk sembra ormai piuttosto distante. Eppure non è del tutto abiurato: torna prepotente, come un rigurgito, nelle brevi convulsioni hardcore di Because I Do e nella caotica How I (Learned My Lesson), che nel testo della Cervenka ricorre a una ambientazione insolita (una chiesa popolata di fedeli) mentre Doe si impegna a scrivere «un motivo alla Eddie Cochran con un pizzico di Johnny Cash, pensando anche a quei pezzi imperniati sul botta e risposta che erano in voga negli anni 50», come spiegherà anni dopo al giornalista Shawn Amos, curatore delle note di copertina della ristampa Cd su etichetta Rhino nel 2001.
Sovrastata da una nuvola malefica, diabolica ed esoterica, Real Child Of Hell è altrettanto spasmodica e ancora più aggressiva, mentre Under The Big Black Sun (la canzone) e The Have Nots sono semplicemente 2 grandi pezzi rock and roll che fanno presagire cosa gli X e Doe diventeranno in futuro. Appoggiandosi a una melodia che quest’ultimo sostiene di avere composto ispirandosi a Bo Diddley, Exene canta la title track mentre con una sigaretta in una mano e un Martini nell’altra valuta con amaro disincanto i pro e i contro di una vita bohémienne; nel pezzo finale del disco (l’unico ad avvicinarsi ai 5 minuti di durata) John intona invece un’ode accorata alla classe operaia, ai bar e alle taverne di quart’ordine — citate per nome, una per una — che alla band hanno offerto rifugio e conforto alcolico nei lunghi anni di vagabondaggio sulle strade dell’America underground.
Cervenka non avrà dubbi, anni dopo, nel considerare quell’album il migliore di sempre degli X, in termini di produzione e di canzoni. E come darle torto anche se poi arriveranno Lp come More Fun In The New World e See How We Are? Con Under The Big Black Sun gli X faranno capire a tutti che punk, filosofia di strada, country, blues e letteratura possono convivere regalando al rock and roll una nuova e forse insperata giovinezza, proprio in quegli anni 80 in cui tutti lo davano per morto e sepolto sotto un cumulo di sintetizzatori, di drum machine e di motivetti pop cantati dalle nuove video star di MTV.
X, Under The Big Black Sun (1982, Elektra)