“Headless horseman music”. Musica da cavalieri senza testa, lanciati temerariamente al galoppo verso una meta sconosciuta. È così che i Traffic chiamavano l’incrocio di folk, jazz, r&b e progressive rock che avevano cominciato a sviluppare dopo il loro disco più famoso e celebrato, John Barleycorn Must Die. Non volevano ripetersi (non lo avevano mai fatto), una volta ripresa la rotta dopo un primo scioglimento, un nuovo inizio e l’ennesimo cambio di formazione.
Dave Mason se n’era andato un’altra volta e Steve Winwood non ce la faceva più a reggersi tutto quel peso sulle spalle, mentre Jim Capaldi si scopriva frontman e cantante trascurando la batteria. Ci voleva un vero bassista, che liberasse Steve dall’onere di sostituire lo strumento con i pedali dell’organo. E bisognava irrobustire la sezione ritmica, se la musica doveva andare in una direzione più esotica e funky. Per le session di registrazione di The Low Spark Of High Heeled Boys, tenute nel settembre del 1971 agli Island Studios di Londra, i Traffic sarebbero così diventati un sestetto, con 3 nuovi musicisti aggiunti al nucleo base composto da Winwood, Capaldi e il sassofonista/flautista Chris Wood: dalla breve avventura dei Blind Faith, Steve aveva recuperato il bassista e violinista Ric Grech, mentre il batterista californiano Jim Gordon, pupillo di Hal Blaine, lo aveva conosciuto grazie a Eric Clapton, a Delaney & Bonnie e a Derek and the Dominos. Ad aggiungere un ingrediente poliritmico e un tocco di worldbeat ci pensavano le conga e le altre percussioni del nigeriano Anthony “Rebop” Kwaku Baah, conosciuto durante un tour in Svezia.
Furono soprattutto gli 11 minuti e 41 secondi della title track a far capire che, una volta ancora, tutto era cambiato in quell’organismo strano e mutante che erano i Traffic. Quel titolo misterioso, The Low Spark Of High Heeled Boys, era stato involontariamente suggerito da Michael J. Pollard, l’attore reso celebre dal Bonnie and Clyde di Arthur Penn che con Capaldi aveva familiarizzato in Marocco durante la lavorazione a un progetto cinematografico mai andato in porto: era lui il piccolo uomo che indossava scarpe con i tacchi alti, attraversato da una divorante energia vitale; il simbolo di una generazione ribelle e anticonvenzionale che Winwood e Capaldi volevano celebrare con la loro canzone (da allora aperta alle più varie interpretazioni, e secondo alcuni contenente riferimenti espliciti al mondo della droga e al consumo di speedball, il micidiale cocktail di eroina e cocaina diffusosi in quegli anni).
Altrettanto fuori dalle regole era quel pezzo meraviglioso che si apriva con un fade in e si chiudeva con un fade out, gli strumenti che emergevano dal pianissimo iniziale con un inconfondibile e magnetico riff pianistico a 2 accordi introdotto dal suono gracchiante di un vibraslap, il basso in primo piano nel missaggio come nel resto del disco, gli assoli di pianoforte che si alternavano al soliloquio notturno di un sax tenore e ai fraseggi di un Hammond distorto da un fuzzbox. Low Spark era, musicalmente, un oggetto alieno e non identificato. Ipnotico e claustrofobico nelle strofe, aperto e rhythm & blues nell’inciso, decisamente jazz nella struttura e nelle fughe strumentali. «Di tutto ciò che Steve ha fatto», ricorderà in seguito suo fratello Muff, all’epoca direttore artistico della Island, «quella title track mi è sempre sembrata la canzone che gli assomiglia di più: bizzarra, intelligente, rilassata, non ben formulata ma con un grande groove. A seconda del mio stato d’animo, è il pezzo che preferisco o quello che mi piace di meno».
I testimoni d’epoca, a partire dal boss dell’etichetta Chris Blackwell, ricordano musicisti che in studio comunicavano poco tra di loro. Eppure in The Low Spark Of High Heeled Boys, che arriverà nei negozi nel novembre del 1971 con una copertina originale e ad effetto (i 2 angoli tagliati davano l’illusione ottica di un cubo tridimensionale in cui cielo e terra si confondono), si respira ancora una magica telepatia. Capaldi, che in passato aveva avuto una volta soltanto la chance di esibirsi come cantante solista, tira fuori la sua anima da entertainer in 2 pezzi esuberanti, estroversi, soul rock e chitarristici come Light Up Or Leave Me Alone e Rock & Roll Stew, con una voglia di jam e di improvvisazione che si scatena in entrambi i casi nel finale grazie a una ritmica con l’argento vivo addosso e a un Winwood sciolto e ispirato alla Stratocaster.
Steve Winwood
Steve rivela i suoi umori malinconici del momento in Many A Miles To Freedom, una ballata dal fraseggio quasi jangle contrappuntata dal flauto di Wood, che con il suo strumento evoca certe atmosfere pastorali di John Barleycorn Must Die nell’acid folk medievaleggiante di Hidden Treasure e soprattutto nella meravigliosa Rainmaker, arcana, esoterica e misteriosa come un antico canto rituale. In quel pezzo Grech sfodera il suo violino mentre dietro i tamburi siede Mike Kellie (V.I.P’s, Spooky Tooth, Only Ones), pronto ad ammettere come Winwood una realtà da pochi riconosciuta: era lui, l’inquieto e fragile Chris vittima delle sue dipendenze e di frequenti attacchi di depressione, «il leader spirituale dei Traffic», l’uomo che pennellava la musica del gruppo con una tavolozza ampia di colori e una passionalità sofferta e travolgente, spalla perfetta per la musicalità prepotente di Steve e per la sua voce da soul man bianco.
Erano un gruppo in costante equilibrio precario, i Traffic, e anche questa line-up ebbe vita brevissima: Grech e Gordon, coautori di Rock & Roll Stew, sostituiti per abuso di droghe dalla leggendaria sezione ritmica di Muscle Shoals, David Hood e Roger Hawkins e avviati, come gran parte della band, verso un tragico destino (Grech, Wood e Reebop moriranno giovani tra gli anni 80 e l’inizio dei 90, Capadi arriverà a malapena ai 60 anni, Gordon è tuttora in galera per avere ucciso la madre dopo un raptus di schizofrenia acuta). Anche per Winwood, intanto, era suonato un campanello d’allarme: la vita on the road intrapresa a 15 anni, quand’era ancora un ragazzino prodigio, stava presentando il conto sotto forma di una peritonite acuta che ne mise a rischio la vita. I Traffic sarebbero risorti altre volte (l’ultima, nel 1994, senza Wood) ma The Low Spark Of High Heeled Boys sarebbe rimasto l’ultimo autentico capolavoro, unico million seller negli Stati Uniti dove a dispetto della sua lunghezza la title track diventò un classico delle radio FM e AOR, un trip mentale che incarnava alla perfezione la libertà espressiva e lo spirito spericolato degli anni 70.
Traffic, The Low Spark Of High Heeled Boys (1971, Island)