Nel 1968 i Pentangle erano la next big thing del folk revival britannico. 1 supergruppo, con 2 giovani maghi della chitarra acustica cresciuti alla scuola di Davey Graham; 1 contrabbassista e 1 batterista di scuola jazz; una cantante esile e minuta dalla voce eterea ma magnetica. Un pentagono (o pentangolo, secondo la denominazione arcaica), una stella a cinque punte come quella realizzata per la copertina del doppio album Sweet Child nientemeno che da Peter Blake, l’esponente della Pop Art inglese che l’anno prima aveva creato per i Beatles la celeberrima busta di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Erano talmente lanciati Bert Jansch, John Renbourn, Danny Thompson, Terry Cox e Jacqui McShee, che il loro intraprendente manager americano, Jo Lustig, poteva permettersi di commissionare un progetto grafico a una celebrità come Blake (fu la sua ultima opera discografica fino al 1995, quando rispose alla chiamata di Paul Weller per Stanley Road). «Lo incontrammo e ci trovammo di fronte una persona deliziosa, davvero carina e gioviale. Aveva ascoltato la nostra musica e gli era piaciuta», ricorderà anni dopo la McShee. «Gli dicemmo che ovviamente in copertina avrebbe dovuto essere preminente l’immagine del “pentangolo“, e così costruì un oggetto tridimensionale in plexiglass che venne poi fotografato».

The Pentangle, 1968

Una confezione deluxe, con quadretti illustrati (sempre da Blake) e brevi descrizioni delle canzoni, faceva da involucro e cornice a un ambizioso doppio Lp: sul 1° disco, la registrazione di 1 concerto tenuto il 29 giugno del 1968 alla Royal Festival Hall di Londra; sul 2°, nuove incisioni di studio effettuate presso gli studi IBC. Uscì nei negozi il 1° novembre di quell’anno per l’etichetta indie folk Transatlantic, ma fu subito chiaro a tutti che i Pentangle erano molto, molto di più di un gruppo dedito anima e corpo alla musica tradizionale delle isole britanniche: piuttosto, un ensemble enciclopedico con una profonda conoscenza anche della musica popolare americana, la mente libera da pregiudizi e uno stile moderno, un approccio contemporaneo.

Cercare di descrivere la musica dei Pentangle è come cercare di descrivere un tramonto“, scriveva Tony Wilson del Melody Maker sulle note di copertina. “Puoi parlare dei colori, ma per apprezzare l’effetto complessivo lo devi vedere. E per apprezzare i Pentangle, li devi ascoltare”. Avevano pubblicato l’album di debutto, Pentangle, meno di 6 mesi prima; ed erano già percepiti come una band fuori norma, una fortunata collisione di individualità spiccate e diverse. Riascoltando Sweet Child colpisce l’ampiezza dei loro orizzonti e il loro atteggiamento coraggioso, quasi sfrontato, oltre alla purezza e alla pulizia del suono generato con l’aiuto del grande produttore americano Shel Talmy (che solo qualche anno prima si era fatto la nomea di mago del rumore, distorcendo e amplificando il rock elettrico dei Kinks e degli Who).

Ascolti il 1° disco e ti sembra di essere lì, in platea sulle poltroncine della Royal Festival Hall, fra un pubblico attento e pronto a omaggiare con applausi scroscianti musicisti che si esibiscono da solisti, in duo, in trio, in quartetto e in quintetto, secondo quanto richiede di volta in volta la canzone. La spettrale murder ballad Bruton Town era l’unico doppione con il 1° disco della band, mentre il resto della scaletta attingeva a Bert And John, pubblicato 2 anni prima da Jansch e Renbourn; a un album (Watch The Stars) che quest’ultimo aveva registrato con la vocalist afroamericana Dorris Henderson e a una vecchia incisione del contrabbassista Danny Thompson con Alexis Korner aggiungendo al repertorio diversi inediti.

Nell’arco di quei 12 pezzi (19, nell’ultima ristampa expanded su Cd), i 5 giocavano a tutto campo inglobando stili e generi. Il folk delle loro terre, ovviamente (So Early In The Spring, tradizionale scozzese che la McShee cantava senza accompagnamento), ma anche molta musica proveniente da oltre Atlantico: spiritual (No More My Lord, un canto carcerario e di lavoro originario della Louisiana), blues (Turn Your Money Green di Furry Lewis) e canzoni per bambini (la natalizia Watch The Stars), oltre al jazz di Charles Mingus con Haitian Fight Song eseguita in versione accorciata da Thompson al contrabbasso e una ipnotica rilettura corale di Good Bye Pork Pie Hat.

La regola era semplice: a ognuno lo spazio per sfoggiare le proprie virtù e inclinazioni. Così, in Three Dances il dotto Renbourn sfoderava il suo amore per la musica medievale e rinascimentale, mescolando una composizione del XVI° secolo di Claude Gervaise, una danza italiana di 200 anni prima (La Rotta) e una pavana di William Byrd; mentre lo scozzese Jansch (il taciturno e scarmigliato ragazzo delle meraviglie che con la sua tecnica e il suo stile inaudito aveva stregato gente come Jimmy Page e Paul Simon) portava in dote oltre a un’aura misteriosa e a una voce fumosa come una ciminiera di Glasgow una Market Song che evocava l’atmosfera di un mercato e gli strilli dei venditori ambulanti e la arcana A Woman Like You, “a metà tra una canzone d’amore e una canzone sulla magia nera”, materiale cantautorale originale, atemporale e di primissima qualità come The Time Has Come di Anne Briggs, la zingara del folk che con Bert aveva legato intimamente e che John aveva già interpretato con la Henderson.

È uno spettacolo ascoltare il fitto dialogo fra i 2, i loro fraseggi fluidi e intricati: Jansch con una chitarra acustica, Renbourn spesso con una Gibson elettrica, mentre Cox usa bacchette, mazze, glockenspiel e tamburelli a cornice per creare fill fantasiosi e sempre diversi, Thompson (presenza fisica e musicale imponente) accarezza e strattona con le dita e con l’archetto la sua Victoria (un contrabbasso di fine 800 e d’origine francese) e la voce della McShee svolazza lieve regalando nuove sfumature anche a repertori abituati a ben altro tipo di interpretazione. Sul palco del South Bank londinese produssero incantesimi che seppero replicare anche in studio, fra un surplus di tradizionali scozzesi (I Loved A Lass), folk song celebri e tenebrose che narrano di spietate rapinatrici (Sovay) e di vite spezzate in tenera età (The Trees They Do Grow High, nel repertorio anche di Joan Baez e di Donovan; e tradotta fedelmente da Angelo Branduardi in Gli alberi sono alti), il blues sinuoso di I’ve Got A Feeling, intrecci a 3 voci (In Your Mind), un solo di Cox dedicato a un musicista da strada (Moon Dog), contrappunti e improvvisazioni strumentali in chiave jazz e a tempo dispari.

Il successo maggiore lo raggiungeranno l’anno dopo con l’altrettanto straordinario Basket Of Light, N° 5 nelle classifiche di vendita inglesi grazie anche alla popolarità conseguita con il singolo Light Flight, ma nessun altro loro disco avrà il respiro ampio e le sfaccettature di Sweet Child, un poligono che rifletteva un’idea di musica globale senza confini: frutto non di una progettualità concettuale ma della spontanea naturalezza di 5 musicisti poliglotti che gettavano alle ortiche qualunque dogma o idea di purismo: “una rock’n’roll band che suonava di tutto meno che il rock’n’roll, come scrisse Pete Paphides sul Guardian commemorando nel 2011 la morte di Jansch.

The Pentangle, Sweet Child (1968, Transatlantic)