Siamo nel dicembre del 1973 quando viene pubblicato Sabbath Bloody Sabbath dei Black Sabbath, storica hard rock band inglese. È un disco che dal titolo e dalla copertina richiama inevitabilmente lavori molto più recenti di gruppi stile “dark metal”, o “epic metal”, o “qualcosa” metal che fanno molto figo all’occhio ma difettano un po’ di sostanza artistico/musicale proprio perchè attuali e quindi costretti, per non dire segregati, nell’estremizzazione di un genere. I ’70 erano invece anni di sperimentazione. E la musica non faceva eccezioni. Qui siamo in presenza di un’opera rock completa. L’apice creativo di una band liberata dall’ossessione della ricerca di un super singolo da zone alte della classifica angloamericana arrivato agli esordi: Paranoid, uscito nel ’70, li ha messi a posto rendendoli celebri e originali in ambito hard, con tanto di successivo film indirettamente riferito a loro (Almost Famous, 2000) e consacrazione alla Royal Albert Hall. Il nome della formazione potrebbe rimandare (e di fatto lo fa) a misticismi, esoterismi o clima da seduta spiritica; ma musica e testi smentiscono l’apparente stile satanico fatto più per colpire l’occhio che l’orecchio. Sembra un messaggio del tipo “ascolta poi giudica”, partendo dal frontman “Ozzy” Osbourne che scimmiotta un po’ vesti o grida fuori controllo ma che, dati alla mano, è in grado di alternare fior di tournée a serrate registrazioni in studio. Partiti nel ‘69 col primo contratto discografico, nel ‘73 i Black Sabbath hanno all’attivo già 5 dischi e relativi tours, tutti di eccezionale valore artistico. Pochissimi gruppi sono stati capaci di tanto, tenendo presente che la line up rimane invariata fino alla dipartita di Ozzy avvenuta nel ’78, anno d’uscita di Never Say Die. Il chitarrista Tony Iommi (con la sua Gibson “SG” rigorosamente nera con croci di madreperla sui tasti) è una pietra miliare per lo studio di questo stile, che si svilupperà in infinite varianti ma che ha come punto di partenza la scuola di white blues britannico di John Mayall (già ispiratore di chitarristi del calibro di Eric Clapton o Jeff Beck, per citarne alcuni) sapientemente e originalmente reinterpretato.
Da notare che il primo disco, Black Sabbath, è un misto di blues-jazz, se così si può definire. Il compositore dei testi è quasi sempre “Geezer” Butler, il bassista. Testi spesso introspettivi, che parlano della valorizzazione del sè come individui (concetto caro allo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung) e dell’amore come scelta di vita al posto dell’inseguimento dei falsi miti indotti dalla società dei consumi. Messaggi un po’ insoliti e inusuali, ma avantissimi per una “semplice” rock band. In più, i brani Looking For Today e Killing Yourself To Live sono veri e propri manifesti contro l’abuso di droghe. Il batterista Bill Ward, cofirmatario nella scrittura sia musicale sia lirica, suona per dare il maggior risalto possibile alle canzoni riuscendo meravigliosamente nell’intento. Così come si addice a una vera opera rock, Sabbath Bloody Sabbath si arricchisce di sonorità particolari, effetti di tastiere (mellotron) e arpeggi di chitarra acustica suonati da Iommi, aggiungendo a tutto ciò un largo utilizzo di percussioni suonate da Ward. Non occorre qui ribadire gli eccessi o le scalate alla celebrità in America di Mr. Osbourne; o lo sviluppo artistico dei successivi lavori di uno dei più grandi gruppi capostipiti di un genere musicale. Questo è uno di quei dischi che si ascoltano infinite volte, la cui peculiarità consiste nell’avere nobili e intramontabili (anche se deliziosamente cupe) radici rock blues, abbinate ad armonie melodiche mai scontate o commerciali.
Black Sabbath, Sabbath Bloody Sabbath (1973, WWA Records)