Essendo nato nel 1962, quando ripenso agli Anni ‘80 avverto un filo d’imbarazzo nel riascoltare certe tastiere ampollose che si spacciavano per sezioni d’archi; o certe batterie elettroniche con effetto eco. E mi domando: “Ma ascoltavi davvero tutta ‘sta roba?” (…e il pensiero corre, per farmi ancora più male, al concerto milanese degli Spandau Ballet dove cantai a squarciagola “gold always believe in your soul”…). Allora cerco una via d’uscita e la memoria si affida con naturalezza a Lui, Paul Weller, spirito guida e fratello maggiore da me adottato a sua insaputa; agli Style Council (cioè Lui & Mick Talbot), a Introducing (‘83), Café Bleu (‘84), ma soprattutto Our Favourite Shop (‘85). E qui, il tempo sembra non essere mai passato. Gli anni? Non si sentono affatto. Our Favourite Shop balza al N° 1 della classifica britannica trainato da un tris di 45 giri: The Lodgers (Or She Was Only A Shopkeeper’s Daughter), Walls Come Tumbling Down e l’imbattibile Shout To The Top (uscito in contemporanea con l’album, escluso dalla scaletta nella prima tiratura del disco, inserito nelle successive ristampe e nella colonna sonora del film Billy Elliot). Con gli Style Council, Weller intende proseguire la strada già tracciata con gli ultimi 2 ellepì dei Jam: Sound Effect e The Gift. Fonde il proprio stile con quello di Talbot (tastierista d’una bravura spropositata, ex Merton Parkas e Dexys Midnight Runners) e insieme abbracciano tutto ciò che ha a che fare con soul, funk e black music. La formazione include l’eclettico drummer Steve White, la deliziosa corista di colore D.C. Lee (sposata da Weller durante le sessions di registrazione del disco) e un numero incredibile di sassofonisti, pianisti, violinisti, percussionisti, backing vocalists e suonatori di corno capaci di dar vita a quest’album di struggente bellezza: a mio modesto pare, il miglior disco di white soul insieme a Young Americans di David Bowie.

Discorso a parte, i testi. Alle godibilissime melodie si contrappongono parole d’inusitata durezza. Paul Weller, in quegli anni, è un vero capopopolo insieme a Billy Bragg; è l’opinion leader più amato e ascoltato della sinistra laburista che si oppone con ogni mezzo alle terrificanti politiche liberiste di Margaret Thatcher (vedi il singolo Soul Deep, inciso col Council Collective per raccogliere fondi a favore dei minatori in sciopero). Homebreakers, che apre il disco, narra di una “casa spezzata” e di una famiglia spazzata via dal nuovo corso politico monetaristico; il calypso di All Gone Away è invece dedicato alle piccole comunità minerarie disperse dai governi Tory. Ma è con Walls Come Tumbling Down (ispirato dal
brano della Bibbia su Giosuè e le Mura di Gerico: “Cercherai di farlo funzionare, o spenderai i tuoi giorni nella polvere. Vedi, le cose possono cambiare. Sì, e le mura possono cadere. Riuscirai a capire le guerre di classe reali e non mitologizzate. E come a Gerico, vedrai: le mura possono cadere”) che la penna welleriana raggiunge il suo apice (ricordo una furiosa versione al Palatenda di Milano, nell’85, dove Paul indossava un barracuda a scacchi e io sarei ancora disposto a dare un anno di vita pur di averne uno uguale). Our Favourite Shop, insomma, non è solo un gran disco ma un sincero manifesto politico. Necessario per comprendere umori, passioni, disillusioni di quei contrastanti Eighties.

The Style Council, Our Favourite Shop (1986, Polydor)