«Pensavo che sarei morta presto. Che quella sarebbe stata la mia ultima occasione di incidere un disco. E allora mi sono detta: al diavolo! Prima di crepare, bastardi, vi farò vedere chi sono». All’inferno e ritorno. Nell’autunno del 1979, quando entra negli studi Matrix di Londra per registrare Broken English, Marianne Faithfull è una sopravvissuta, una tossica ancora in guerra con la sua dipendenza. Un angelo caduto dal cielo che ha lasciato il glamour di Carnaby Street e il party senza fine dei Rolling Stones per i vicoli sordidi del World’s End, frangia estrema (in tutti i sensi) del quartiere di Chelsea. E che ancora si lecca le ferite per la fine della relazione con Mick Jagger, dopo aver tentato il suicidio ed essere finita in coma per overdose. Sono tempi cupi, per lei e il mondo intero: terrorismo, guerra fredda, Iran e Afghanistan, tensioni sociali, incubi nucleari dopo l’incidente americano di Three Mile Island (niente di nuovo, a guardarla dalla prospettiva di oggi: di lì in poi ci saremmo assuefatti). E Marianne, ex first lady della Swinging London non ancora 33enne, è arrivata al bivio. Vivere o morire, sparire di scena o immaginare un nuovo futuro artistico dopo quel singolo nostalgico e “rétro”, Dreamin’ My Dreams, che qualche anno prima aveva riscosso inatteso successo in Irlanda riportandola in tour con una nuova formazione. In quel momento, con l’onda punk ancora montante, i Clash sono “l’unica band che conta” e lei si sente rinfrancata. Le piace quel modo di dire finalmente le cose come stanno, in maniera onesta e brutale. Le aggradano lo stile, l’atteggiamento, il linguaggio risoluto di quei ragazzi arrabbiati e senza futuro che incrocia sulle strade di King’s Road (tanto da sposarne uno, Ben Brierly dei Vibrators). In Broken English appare trasfigurata: abbandonata l’immagine da fatina bionda e hippie degli Anni ‘60, abiurato il look da “Marlene Dietrich country and western” del disco precedente, nelle seducenti foto di copertina è «un diamante scintillante e appena scoperto» (così Dennis Morris, autore delle foto messe in mostra a Londra nell’estate 2010). Un braccio a coprire parzialmente il volto, Marianne è illuminata nell’oscurità da una luce blu elettrica e dalla cenere ardente d’una sigaretta accesa. Elegante, sexy, austera, bellissima. E dark, rabbuiata e inquieta come non era mai apparsa prima.
È la sua voce, però, la novità più scioccante, la firma più indelebile: il flebile sussurro di As Tears Go By trasformato in rantolo roco e graffiante, le corde vocali sfregiate da anni di alcol, tabacco e stravizi (diventerà il suo marchio di fabbrica, l’alter ego aggraziato e femminile del timbro alla cartavetro di Tom Waits). E le canzoni sono una fucilata, un pugno nello stomaco, un flusso di immagini crude e spietate. Non autobiografiche in senso stretto, ma più vere del vero quando a interpretarle è una giovane donna già segnata da una vita tumultuosa. Nella folk ballad intitolata Witches Song, Marianne canta la complicità femminile; ma poi è l’esperienza estrema delle droghe pesanti (come in un disco dei Velvet Underground, come ai tempi di Sister Morphine: reincisa non a caso proprio in quel periodo, pubblicata qualche anno dopo sul lato b del singolo Broken English e riproposta nella versione deluxe doppio Cd ) a fare da sfondo a buona parte del disco: la ricerca spasmodica della “roba” in What’s The Hurry; il senso di colpa cattolico in Guilt (scritta da Barry Reynolds, suo braccio destro per tanti anni); il prosciugamento di ogni risorsa economica e cerebrale nel blues dolente di Brain Drain (ispirato da un altro junkie, il cantautore americano Tim Hardin). Ritratti onesti, senza veli e brutali di un impulso distruttivo paragonabile a quello di chi indirizza la rabbia e il desiderio di morte verso la società (la title track, farcita di gorgoglii sintetici e trascinata da un incalzante ritmo quasi disco, è ispirata a un libro sulla banda Baader Meinhof). C’è molta vita vissuta anche nelle covers, azzecatissime. La Working Class Hero di John Lennon ai tempi della Plastic Ono Band, si trasforma in una ballad elettronica e spettrale che ruota ipnotica intorno a un irresistibile giro di basso (scelta bizzarra e fuori luogo, come scrisse qualcuno? Niente affatto, spiega la cantante nelle note di copertina della ristampa: sul suo sangue blu la stampa ha sempre esagerato, dimenticando gli anni di vita umile e in ristrettezze a carico di una madre separata). E nessuno come lei saprà “abitare” The Ballad Of Lucy Jordan (autore Shel Silverstein, già incisa da Dr. Hook & The Medicine Show), ritratto di una casalinga frustrata, sognatrice e destinata alla follia cristallizzato in un’interpretazione struggente e indimenticabile: complici il loop di sintetizzatore suonato da Steve Winwood e, 12 anni dopo, una delle sequenze più suggestive del film Thelma & Louise di Ridley Scott. Ancora più veritiera, straziante e personale è Why’d Ya Do It, il white reggae più sconcio e velenoso di tutti i tempi, sfogo bilioso di fronte al tradimento di un maschio sciorinato con un linguaggio a luci rosse che provocò problemi con la censura e costrinse la casa discografica a cancellarla dalla scaletta sulla stampa australiana dell’Lp. Il suo formidabile riff, spiegò poi il chitarrista solista Joe Mavety, era stato preso di peso dalla versione di All Along The Watchtower incisa da Jimi Hendrix, a conferma che questo è un disco che pulsa rock’n’roll in ogni vena a dispetto della patina sintetica e new wave dei suoni aggiunti in post produzione da Mark Miller Mundy con l’aiuto di Winwood (la Faithfull espresse il suo dissenso, dichiarando la sua preferenza per il missaggio originale creduto perso ma recuperato e riproposto per intero nel secondo Cd del nuovo deluxe: il confronto è stimolante, ma la versione finale non ne esce sconfitta). Con un “côté” artistico e raffinato, inoltre, nelle sue implicazioni letterarie (il testo di Why’d Ya Do It nacque da un’idea del poeta e scrittore Heathcote Williams) e cinematografiche (il corto girato da Derek Jarman e destinato alla proiezione, anch’esso incluso nella doppia ristampa). Era (ri)nata una stella. Il fiuto di Chris Blackwell della Island Records, che dopo aver ascoltato i demo l’aveva voluta nella sua scuderia, ancora una volta aveva fatto centro. Con quel disco, Marianne conquistava “status” e credibilità straordinaria presso una nuova generazione di ascoltatori creando il “tòpos” duraturo di una sophisticated lady spregiudicata, sprezzante del pericolo, segnata da rughe e cicatrici seducenti. Capace, in seguito, di camminare in bilico sul repertorio scivoloso di Kurt Weill e Noel Coward, di flirtare con Nick Cave e PJ Harvey, d’interpretare al cinema ruoli scomodi, ironici e magistrali (Irina Palm). Nacque tutto da lì, da quel Broken English concepito come un testamento e diventato il simbolo fiero, duro, orgoglioso di una rinascita artistica ed esistenziale.
Marianne Faithfull, Broken English (1979, Island)