Come musicista Ian McDonald (25 giugno 1946 – 9 febbraio 2022) ha vissuto almeno 2 vite, protagonista di una delle metamorfosi più sorprendenti della storia del rock: una capriola acrobatica che da Londra lo portò a New York, lo condusse dal progressive romantico e apocalittico dei King Crimson (giocò un ruolo da protagonista assoluto nell’Lp di debutto In The Court Of The Crimson King) all’AOR radiofonico dei Foreigner di cui fu 1 dei fondatori, salvo andarsene dopo 3 album per divergenze artistiche e reinventarsi poi session man di lusso.
Pativa l’isolamento e lo stress della vita on the road; e per questo lasciò i Crimson dopo il 1° tour americano, convincendo il batterista Michael Giles (che intanto stava registrando In The Wake Of Poseidon con la band di Robert Fripp) a incidere con lui 1 disco cui aveva iniziato a lavorare da solo a casa sua usando un registratore a 2 piste e che avrebbe completato negli studi della sua etichetta, la Island, disposta a garantirgli fiducia e un budget sostanzioso sull’onda del successo istantaneo riscosso dalla sua ex band. Sappiamo come andò a finire: all’epoca McDonald and Giles non smosse le acque, ma il tempo nei suoi confronti è stato galantuomo. Lavorando in pieno relax e in assoluta armonia insieme a Peter Giles, bassista e fratello di Michael; e a qualche ospite, i 2 lasciarono sgorgare sui nastri una creatività esuberante che sintetizzava il lato più soft, eccentrico e pastorale del prog inglese del periodo, un po’ come i Caravan stavano facendo dalle parti di Canterbury.
Ian McDonald durante la registrazione di In The Court Of The Crimson King, Wessex Studios, 1969
McDonald era un polistrumentista virtuoso capace di muoversi agilmente tra flauto, sassofoni, clarinetto, tastiere e chitarre; un grande arrangiatore e un eccellente compositore; Giles un batterista originalissimo, fluido, imprevedibile, intuitivo e all’epoca molto imitato (ascoltate il 1° Franz Di Cioccio), capace di conferire alle percussioni un linguaggio ricco ed elaborato, mentalmente sintonizzato col fratello Peter che con lui condivideva «l’entusiasmo per le mutazioni e le circonvoluzioni ritmiche». La loro musica non era dark e tenebrosa come quella dei Crimson e lo si capiva già dalla copertina: i 2 musicisti ritratti sorridenti e abbracciati alle loro compagne in un bosco dai colori rosei e irreali. Tuttavia l’humus in cui era germogliato il loro talento era lo stesso di Fripp e compagni; e una parentela stretta fra i 2 progetti sonori era innegabile.
Soprattutto in Flight Of The Ibis, una ballata leggiadra e innocente che utilizzava la prima melodia composta per Cadence And Cascade (inclusa qualche mese prima dai King Crimson in The Wake Of Poseidon) e la affiancava a 1 nuovo testo scritto da BP Fallon, spiritato musicista, disc jockey e fotografo irlandese che qualche anno dopo sarebbe diventato il PR dei Led Zeppelin: diventava così una sorta di alternate take in cui una cetra (suonata da McDonald) accompagnava aggraziate armonie vocali dipingendo un delicato quadretto influenzato, nelle scelte di arrangiamento, dalla musica della Band di cui Giles era un grande fan. L’amore per i Beatles e per le melodie mccartneyane era invece all’origine di Is She Waiting?, dove a McDonald bastavano la voce, un paio di chitarre e un pianoforte per creare una piccola oasi di pace e di tranquillità distante anni luce dai lugubri presagi di In The Court Of The Crimson King e dalle psicosi dell’uomo schizoide del 21° secolo.
Michael gli rispondeva con l’inno estroverso e ottimista di Tomorrow’s People – The Children of Today, unica sua composizione presente nell’album e rielaborazione di 1 pezzo che aveva iniziato a scrivere nel 1967 ai tempi del trio pre crimsoniano Giles, Giles & Fripp: una fanfara di fiati squillanti, i ritmi vivaci, un assolo latineggiante in cui il batterista percuoteva anche bottiglie di latte, utensili e scatole di metallo (lo hanno campionato in tanti, a partire dai Beastie Boys di Body Movin’), un effervescente interplay tra un flauto e un trombone (suonato da Michael Blakesley) trasmettevano un messaggio pacifista e di speranza che traeva ispirazione da John Lennon e che le pessime notizie di queste ore rendono più che mai attuale.
Variazioni ritmiche, timbriche e d’atmosfera erano ingredienti dosati con sapienza, spontaneità e coraggio in tutto McDonald and Giles; e in particolare nelle 2 lunghe composizioni di Ian poste in apertura e in chiusura del disco: gli 11 minuti di Suite In C, in bilico tra euforici slanci giovanili e mature riflessioni, furono ispirati anch’essi dai Fab Four e in particolare dalla medley che occupava la seconda facciata di Abbey Road; si aprono con Turnham Green, un minimale dialogo tra basso, chitarra elettrica e voce filtrata; e alternano ariose aperture melodiche a qualche passaggio più intricato e tenebroso, mentre il compagno di etichetta Steve Winwood, in quei giorni impegnato con i Traffic nelle registrazioni di John Barleycorn Must Die, aggiunge al tessuto strumentale i fraseggi del suo organo e un assolo di pianoforte, instaurando con il flauto di McDonald un serrato dialogo in chiave jazz rock prima di un finale spensierato a ritmo di boogie.
Ian McDonald e Michael Giles
Ancora più movimentati e immaginifici, gli oltre 21 minuti finali di Birdman utilizzavano 1 testo di Pete Sinfield, il paroliere dei King Crimson e 1 frammento recuperato dal repertorio della band (la sezione intitolata Wishbone Ascension faceva parte di Trees, eseguita dal vivo nel 1969) per raccontare le esperienze trascendenti di un uomo capace di volare in sogno come un uccello per poi fare dolcemente ritorno sul suolo terrestre. Strofe eleganti, colte e barocche si accompagnano a 6 movimenti musicali diversi ma unificati dalla presenza di alcuni motivi ripetuti, fra un coro da cattedrale, una sognante marcetta aperta da effetti da film di fantascienza, ritmi sudamericani, momenti di audio veritè (in The Workshop Giles taglia un pezzo di legno con una sega), un intermezzo fusion marchiato a fuoco da un assolo bruciante di sax, una sezione swingante e un acrobatico assolo di flauto che preparano il terreno al climax emotivo del disco, un maestoso coro punteggiato da un pianoforte che nel finale lascia spazio a un crescendo orchestrale (quasi in contemporanea ai Pink Floyd di Atom Heart Mother) e a 4 sommesse note in disolvenza: come in Suite In C, anche qui McDonald rinunciava ai suoni artefatti del mellotron di cui era stato 1 dei pionieri preferendo gli archi e gli ottoni di una vera orchestra per esaltare la dimensione epica e onirica della sua musica.
Fu un piccolo trionfo artistico anche se, visti i deludenti risultati di vendita e l’impossibilità di promuovere il disco con un tour, la casa discografica non avrebbe concesso loro una seconda chance e solo molti anni dopo (nel 2002, in occasione di una ristampa su Cd) McDonald avrebbe avuto la soddisfazione di vedere pubblicata una sua “director’s cut” intervenendo sul missaggio di cui non era mai stato soddisfatto. Lui e Giles non ebbero quanto meno il rimpianto di non avere messo in quel disco idee e intuizioni libere da format, etichette e preoccupazioni commerciali. Sapevano di avere creato 1 album ricco di «invenzione, melodia, spontaneità, sensibilità, dinamica, trame sonore e naturalmente humour» (parole del batterista): le qualità migliori della musica che si produceva in Inghilterra, in quegli anni convulsi e avventurosi.
Ian McDonald e Michael Giles, McDonald and Giles (1970, Island)