La copertina del disco architettata da Mike Doud è già di per sé un capolavoro, con quella skyline di Manhattan vista dall’oblò di un aereo che impila stoviglie, tazze, posate, bottiglie, zuccheriere. E in primo piano c’è Libby, la cameriera che a mo’ di ipercalorica Statua della Libertà regge il piattino con un bicchiere di orange juice al posto della fiaccola. Il succo, che mischia con lucida paraculaggine pop inglese e rock FM a stelle e strisce, ha il gusto zuccherino della perfezione assoluta.

Breakfast In America, 6° album dei britannici Supertramp (nome mutuato dall’Autobiography of a Super-Tramp del poeta e romanziere gallese William Henry Davies) capitanati da Rick Davies e Roger Hodgson, è la consacrazione quando ormai non ci speravi più dopo anni di tentativi andati a vuoto e giri concertistici dagli esiti se non disastrosi ma quasi. Fra gli irrisolti Supertramp (1970) e Indelibly Stamped (1971), i loffi Crisis? What Crisis? (1975) e Even In The Quietest Moments… (1977), si era comunque insinuato il raggio di luce di Crime Of The Century (1974) che suggeriva di ripartire prima o poi dalle cose buone: Dreamer e Bloody Well Right su tutte. Nel 1979, finalmente, i Supertramp raccolgono (anche psicologicamente) il frutto d’essersi lasciati alle spalle l’uggiosa Londra per stabilirsi nella sunny California.

Prodotto da Peter Henderson e dal gruppo, registrato ai Southcombe Studios di Burbank e al Village Recorder di Los Angeles, Breakfast In America vede all’opera Rick Davies (voce, tastiere), Roger Hodgson (voce, tastiere, chitarra), John A. Helliwell (strumenti a fiato), Dougie Thomson (basso) e Bob C. Benberg (batteria). In un ideale equilibrio fra Beatles e Beach Boys, Procol Harum e Caravan, l’ellepì dispensa prelibate sfiziosità sonore: dalla spiritata The Logical Song con le sue incredibili progressioni pianistiche, il sax urlante e la voce che fila super acuta; a Take The Long Way Home, con l’impeccabile refrain del pianoforte e quell’armonica a bocca che mette i brividi.

Dall’avviluppante Goodbye Stranger con tanto di falsetti stile Bee Gees e gli impetuosi stacchi chitarristici, a Just Another Nervous Wreck e Child Of Vision furbescamente pilotate in tardo progressive; dalla title track virata in musical alla jazzata Casual Conversations, la prima colazione è dunque servita su un piatto d’argento in questo disco senza tempo, da ascoltare ad libitum.

Supertramp, Breakfast In America (1979, A&M)