«Dopo molti film nati in quello spazio ibrido che è il cosiddetto documentario di creazione, questo rappresenta per me una nuova sfida: un film di finzione, storico e in costume, ma senza sacrificare il realismo, l’immediatezza, l’intimità dei miei precedenti lavori». Il regista e sceneggiatore Roberto Minervini introduce così I dannati, presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Siamo nel 1862 e la Guerra di Secessione imperversa negli Stati (non ancora Uniti) d’America. L’esercito nordista invia un manipolo di volontari nelle lande sconosciute e selvagge dell’Ovest, con il compito di setacciare quelle zone inesplorate e difenderle dal nemico sudista.
Il contingente, eterogeneo per età e per estrazione sociale, dovrà resistere almeno 2 settimane prima che arrivino i rinforzi. Sicchè fra una partita a carte, una bevuta e un giro di perlustrazione i soldati dialogano fra loro cercando di comprendere il senso di quell’esperienza terrificante che li vede soli e abbandonati in mezzo al nulla e al gelo.
Ci sono 2 ragazzi che con il loro padre non saltano mai una preghiera e non hanno sparato ad altro se non a conigli. E ci sono militari di lungo corso che insegnano ai meno esperti tutto quello che c’è da sapere sulle armi da fuoco (non esattamente le automatiche che vediamo nei film di oggi).
L’attesa di un nemico sconosciuto e invisibile – come nel romanzo Il deserto dei Tartari scritto da Dino Buzzati – è il centro della pellicola: un’attesa fatta di silenzi e di freddo, di neve e di paura, dell’ambizione di cambiare la propria vita in meglio per lasciare un segno indelebile nella Storia. Nell’attesa della morte o della gloria, giovani e meno giovani sono abbandonati a loro stessi in un loop destinato a ripetersi giorno dopo giorno.
I dannati non ha una colonna sonora, dal momento che i silenzi la fanno da padroni. In compenso, ci regala una fotografia e una gestione della luce che meritano certamente un plauso.