Ci diamo appuntamento nel suo studio a Milano, rocambolesca “mise-en-scène“ delle sue sculture che cortocircuitano icone Anni ’80 da “edonismo reaganiano”, superuomini in crisi di nervi, santi e martiri in odor di marketing, loghi della pubblicità da inzuppare nell’arsenico, politici e dittatori da tragicommedia. Opere ghignanti, destabilizzanti, che non mi lasciano mai indifferente. Ogni volta che le guardo sorrido. E poi mi metto a ridere. Ci ragiono su e mi disturbano, mi intrigano, mi attraggono “voyeuristicamente”. Potenza di Francesco De Molfetta che come me (e perciò ci sentiamo in sintonìa) ama gli animali (ha 2 cani corsi: Buio e Ombra; io Twiggy: schnauzer femmina), il cioccolato (lui fondente, io basta che respiri) e il rock: nel suo caso durissimo, con un orecchio al Glam Anni ’80 (io a quello “vintage” degli Anni ’70) “coverizzato” ogni volta che suona il basso (lo fa da 23 anni) in una band. Oltretutto sono assai rock 2 opere fra le sue più riuscite (La mia panda suona il rock e Mona Kissa, in collaborazione col pittore Tom Porta) e il suo modo grafico di (im)porsi: vedi la belva satanica con linguaccia “rollingstoniana” e saetta dell’Aladdin Sane “bowiano” incorniciata da de mölfetta Itäly in puro stile Motörhead.

Di Garbagnate Milanese, classe 1979, esperienze di regia teatrale e cinematografica (in curriculum ha 4 cortometraggi da lui stesso definiti «fiction surreali»), Francesco è anche Demo. Anzi, “il Demo”: per tutti, da una vita. «La realtà è che De Molfetta lo teme un po’», mi dice, «perché Demo è la sua parte folle che non ha regole, non segue princìpi di causa-effetto, prescinde da qualsiasi connotazione logico-razionale. E si vede, anche se c’è grande lucidità in quello che faccio. C’è sempre un ragionamento, dietro. Spesso, però, si innescano suggestioni che voglio vadano al di là della ragione, del calcolo». Da bambino Francesco sognava di fare il giocattolaio. E c’è riuscito: «Creo giocattoli, ma non gioco solo con l’intenzione di farlo e basta: c’è la componente ludica, questo sì, ma è ludico-riflessiva. Ricordo uno slogan di quand’ero piccolo: “Il giocattolo: cibo per la mente”. In effetti ogni bambino vive la sua esperienza tattile: tocca la superficie del giocattolo e piano piano conosce il mondo, le forme, i colori. Inizia a fantasticare dimensioni parallele, a spingersi oltre. Ecco, vorrei che le mie sculture facessero altrettanto esprimendo forme capaci di condurre altrove chi le osserva». Ludo ergo sum, mi viene da dire. Gioco dunque sono. D’altronde, il prefisso “io” è il succo della parola “gioco”. Quindi: il gioco è proprio lì, dentro l’io che ci gioca. E Francesco l’ha ben delineato con la sua arte, scandendo forme infinitamente piccole e infinitamente grandi: «Non mi piacciono le mezze misure. O forse non mi riescono. Creavo cose piccolissime – giocando pubblicitariamente su concetti e slogans – popolate da omini che erano calchi di minuterie da modellismo; forniture per plastici architettonici che rielaboravo e ridipingevo a seconda della funzione che dovevano avere nel contesto, nello scenario di ogni opera. Finchè mi sono stancato dell’ossessivamente piccolo e sono passato all’enorme».

Dai microscopici imbianchini che cancellano l’ordine, si cancellano per sempre o mettono nero su bianco; dalla tenaglia che sta per stritolare il micro-manager (La morsa del lavoro); dall’omino che affiora da una spazzola (Lo spazzolato), quello che spunta da una scatola di fiammiferi (C’è Rino) e quello che svetta in cima a una pistola (Cogito ergo Bum!) – accompagnati nel loro destino da giochi di parole e doppisensi – il Demo è passato al macro del Michel Angelo (metà Buonarroti, metà Michelin) e al Batman iperglicemico, talmente stufo di dover difendere Gotham City da tramutarsi in un Fatman con la bocca sbavante cioccolato e un cono gelato sciolto in pugno: «La mia opera di rottura. Tanto da comparire sull’Enciclopedia Treccani con un memorabile titolo/contrapposizione: Da Piero della Francesca al Francesco De Molfetta». L’arte concettuale, in entrambi i casi, ha vinto. Cogliendo il significato più logico del termine con gli omaggi a Marcel Duchamp (DU-shampoo, col celebre orinatoio dove però qualcuno si è appena fatto uno shampoo); Gino De Dominicis (DEVI su monocromo rosso e La Legge è Anale per Tutti a mo’ di epitaffio); Alighiero Boetti (gli arazzi NON È UN VERO BOETTI e SILVIO BERLUSCONI); Piero Manzoni, col micro e il macro a fronteggiarsi nel nome della Merda d’artista. «E ci aggiungo», puntualizza, «oltre al mistero delle Foto mai viste (assemblaggio di rullini fotografici che non sai cosa contengono ma hanno in sé il potenziale della visione), l’Olio su tela e gli Smalti su tela che sfottono le tecniche pittoriche attraverso colate d’Olio Sasso e smalti per le unghie». Un discorso a parte va fatto per Jeff Koons, “demolfettianamente” ritratto (in Una presa per il Koons) in sella a uno dei suoi Balloon Dog: «Lo zio Jeff non si tocca. In lui ammiro tantissimo l’amore per la materia, l’esasperazione della forma banale. La tecnica, nel suo caso, prevale sull’idea. Molti si ostinano a criticarlo a prescindere, senza sforzarsi di capire non solo le sue opere ma la sua vita e in particolare la sua infanzia. L’arte di Koons inizia da lì». Francesco De Molfetta, per tutti Demo, è invece pronto a dirci che «c’è sempre un rimando alla bellezza, in ciò che realizzo. Perché non posso prescindere dall’arte neoclassica». La prova? Ce l’ho davanti agli occhi: le 3 Grazie del Canova trasformate in 3 Gassie, alludendo al “junk drink” di altrettante bevande gassate. Geniale. E scoppio a ridere

Foto: Fatman, 2010
Monna Kissa, 2009
Michel Angelo, 2010