Una bella serata di slop ‘n’ soul quella di mercoledì 4 settembre 2024: graziata da un cielo minaccioso, ingentilita da una temperatura gradevole e nobilitata da uno spazio bello ed elegante come la Triennale di Milano, con un palco allestito in giardino a pochi passi dalla restaurata fontana/piscina I Bagni Misteriosi progettata da Giorgio de Chirico nel 1973 e resa ancora più affascinante dai giochi di luce notturni.
Se non sapete cosa sia lo slop ‘n’ soul non preoccupatevi: è un neologismo inventato da Curtis Harding, 45enne musicista afroamericano originario del Michigan e che oggi divide il suo tempo fra Atlanta e Los Angeles (dove ha sede la sua casa discografica Anti-, fra le più importanti indie della scena contemporanea), arrivato in Italia per un tour di 3 date (oltre a Milano, ieri a Roma e stasera al Liverock Festival di Acquaviva, in provincia di Siena) a quasi 3 anni di distanza dalla pubblicazione del più che eccellente If Words Were Flowers, 3° album realizzato nel corso di una carriera decennale che prosegue a ritmi dilatati. Quella parola, ha spiegato lui stesso in alcune interviste, «proviene dal Cosmic Slop dei Parliament-Funkadelic e serve semplicemente a descrivere il funk e il flusso della mia musica. Ha anche a che fare con il mix che la contraddistingue: non c’è alcuna costrizione, è semplicemente quel che mi piace fare perché amo tanti stili di musica differenti».
Per questo adora anche Sly & The Family Stone e David Bowie, così come i suoi concittadini acquisiti OutKast e CeeLo, anche se dal vivo la sua musica si semplifica, gli arrangiamenti si asciugano e si perdono le sfumature delle ricche produzioni realizzate da nomi di grido quali Danger Mouse. Sul palco lo asseconda un solido quartetto interrazziale con un altissimo e riccioluto batterista cui a inizio concerto si rompe la seggiola (Harding reagisce con grande aplomb: «Nessun problema», ci racconterà dopo lo show nel backstage, «l’importante è continuare a seguire il flow della musica. Alla peggio ci saremmo riorganizzati improvvisando un set acustico»); un bassista occhialuto con cappellino da baseball in testa; un ottimo tastierista/percussionista aggiunto e un chitarrista afroamericano dal look anni 70, cappello a tesa larga, giacca e pantaloni chiari a scacchi. Imbraccia una Fender elettrica come fa spesso anche il frontman, occhialoni, panciotto, jeans e pizzetto alla Malcolm X, quando non si limita a cantare o a tenere il tempo con un tamburello.
Ha il physique du rôle da soul man retromodernista quale è; e lo si capisce subito quando entra in scena, mentre il suo nome scritto in rosso a caratteri cubitali e incorniciato da 2 stelle campeggia sullo schermo di retropalco su uno sfondo verde mentre la band, introducendo Keep On Shining, pompa un groove che resterà la spina dorsale di uno show in cui abbondano e sono in gran maggioranza i brani uptempo. Proviene dal 1° album del 2014 programmaticamente intitolato Soul Power, mentre subito dopo The Drive accentua l’impatto percussivo e le tonalità psichedeliche della musica grazie anche al timbro space del sintetizzatore.
Lo si potrebbe scambiare talvolta per una versione meno glamour e più roots del 1° Lenny Kravitz, ma si capisce che questa è la musica che traspira dal suo corpo e dalla sua anima; e che i modelli di riferimento sono i più nobili: i fantasmi di Gil Scott-Heron e di Curtis Mayfield aleggiano soprattutto sulla ballata Need My Baby, introdotta da una voce preregistrata ed effettata con l’eco che rievoca gli incipit di certi dischi classici di 50 anni fa. Come quella di Mayfield, la bella voce di Harding ricorre spesso e con efficacia al falsetto (in Wednesdey Morning Atonement si percepisce la sua educazione giovanile al gospel), ben supportata dai cori e dai dialoghi a botta e risposta con i suoi musicisti, in pezzi come The One dove il basso si carica di fuzz.
Sono soprattutto le tastiere a garantire varietà timbrica alla performance, fra i sibili del synth (Dreamgirl), il suono caldo dell’organo e quello che nella ballabile Till The End (con un 1°, brevissimo assolo di chitarra) ricorda un vibrafono. Subito dopo On And On, pur priva dei fiati della versione originale, sfodera un ritmo inequivocabilmente Motown e il pubblico, attento e intergenerazionale, non si fa pregare per intensificare le danze tanto più che in un altro pezzo vecchio come Heaven’s On The Other Side la chitarra ritmica sembra quella di Nile Rodgers e affiorano echi dell’epoca d’oro della disco.
Curtis Harding
Face Your Fear, title track del 2° album del 2017, è sinuosa e sensuale come la più recente Explore, mentre gli arpeggi di Freedom introducono colori più latini; Castaway è un’altra bella ballad molto anni 60, ma poi il ritmo accelera di nuovo con il singolo Can’t Hide It (promosso ai tempi con un divertente video Seventies nello stile di Soul Train, il leggendario programma televisivo americano), con una I Won’t Let You Down in cui Curtis incita la platea a battere le mani e a cantare il ritornello e con Need Your Love, 1 dei titoli più noti, diretti e trascinanti del repertorio.
Come tutti i consumati performer, il meglio di una esibizione concentrata in 1 ora e ¼ Harding lo riserva nel finale grazie a Hopeful, piccolo capolavoro in salsa psychedelic soul che in pieno Covid invitava a risollevare la testa dichiarando a chiare lettere la sua adesione al movimento Black Lives Matter. È l’unico brano dilatato, con un vero assolo di chitarra e uno sviluppo in crescendo dopo una sequenza di brani concisi e filanti. Si chiude a braccia alzate e con un’invocazione, dal palco, al peace & love. È il 2024, non il 1967 o il 1972 di Wattstax, ma le good vibrations di questa musica semplice, ritmata e intensa e il messaggio di speranza e incoraggiamento lanciato da Harding sul prato del giardino della Triennale, sono arrivati forti e chiari.