Siamo nel 2025 a Chicago, 10 anni dopo un’invasione aliena. È un’occupazione totale, penetrata nei centri di governo e controllo delle istituzioni. Gli alieni hanno disattivato le comunicazioni e un’indiscussa supremazia tecnologica ha messo in ginocchio l’umanità. Una sorta di Stato di Prigionia globale. In una metropoli decadente e in rovina (testimonianza di un breve ed efficace conflitto di conquista), le persone sembrano accettare il loro destino. La politica è stata spazzata via e lo capiamo dal titolo che viene dato ai conquistatori, ovvero “legislatori”. La sicurezza è invece organizzata dalle truppe degli alieni “cacciatori”, anche se il lavoro sporco e quotidiano viene affidato alla polizia terrestre. In questa situazione seguiamo le vicende di William Mulligan (John Goodman), “grigio” e silenzioso poliziotto che accetta supinamente il ruolo di difensore dello stato delle cose; e di un gruppo che invece vorrebbe combattere contro gli invasori, seppure in un contesto di netta inferiorità: tecnologica e numerica. Protagonisti in questo ruolo abbiamo i fratelli Gabriel (Ashton Sanders) e Rafe (Jonathan Majors) e un’esigua pattuglia di ribelli.
La struttura di Captive State, film diretto da Rupert Wyatt, si sviluppa in circa 2 ore partendo da questa situazione in un contesto molto particolare dove la fantascienza è spesso brillantemente contaminata da atmosfere thriller e noir. Senza aggiungere altro sulla trama e senza “spoilerare”, mi sembra tuttavia importante soffermarmi su alcuni aspetti. Siamo in piena zona “fantascienza dell’invasione”. Alieni ipertecnologici e ipercattivi che occupano il nostro verde pianeta per saccheggiarlo da risorse energetiche e naturali. Un tema, questo, ampiamente affrontato a iniziare da La Guerra dei Mondi di H.G. Wells con la conseguente trasposizione cinematografica di Byron Haskin (1953) e successivamente di Steven Spielberg (2005), con ampie declinazioni in svariate pellicole (L’invasione degli Ultracorpi o Il giorno dei Trifidi, nonché decine di serie Tv come la storica UFO di Garry e Sylvia Anderson). In quest’ambito, Rupert Wyatt non riesce a distaccarsi in modo significativo da cliché di questo genere forse un po’ stanchi: sembra si tratti più di un ammodernamento di alcuni ingredienti come l’aspetto di alieni e astronavi; e di un tentativo, a mio parere un po’ vago, di creare una metafora sulle vicende umane di invasioni e dittature. Anche la caratterizzazione degli extraterrestri sembra arrivata a un punto morto: pur di sopravvivere e disposti a tutto, nella sicurezza della propria supremazia tecnologica ci invadono “senza se e senza ma”. Nessun confronto, nessun dialogo, ovvero una filosofia molto “made in USA” del cattivo contro il buono. Bisogna però ammettere che il pregio di questo film è nell’ambientazione periferica degradata di Chicago (il quartiere etnico di Pielsen) dove, tutto sommato, si è abituati a combattere da sempre contro il razzismo, l’emarginazione e il declassamento degli esseri umani in subumani. Come a dire che, in caso d’invasione aliena, gli unici a essere in grado di reagire con forza potrebbero essere gli ispanici o gli afroamericani: ed è una lunga storia che ci ricorda drammaticamente chi fu in prima fila nello sbarco in Normandia o nelle varie guerre, dal Vietnam all’Iraq. Insomma, Captive State sembra raccontarci più le motivazioni dei ribelli che quelle degli alieni, la cui “alienità” non sembra data tanto dall’incommensurabilità quanto dalla mancanza di esigenza narrativa.
Detto ciò, questo paio d’ore di ritmo incalzante e di musica (Rob Simonsen) al limite della sopportabilità (in questo caso può essere un pregio, viste l’ansia e l’inquietudine costante che provoca) non lasciano granché. Ed è un peccato, poiché il film è innegabilmente fatto bene e gli attori (a cominciare da John Goodman) sono semplicemente perfetti: ma in un contesto in cui trama e ritmo finiscono per prendere il sopravvento su tutto. Anche la pregevole e accurata ricerca di location (metropolitana e zone industriali reali e abbandonate) finisce per essere svilita dalla velocità e dall’impossibilità di “guardare” e apprezzare. E basta rivedere Stalker di Andrej Tarkovskij per capire di cosa sto parlando. Ma senza scomodare vecchi capolavori della fantascienza, mi piacerebbe prendere a confronto altre opere recenti: Annientamento di Alex Garland (tratto dal romanzo di Jeff VanderMeer), Under The Skin (purtroppo l’omonimo libro di Michel Faber non è stato valorizzato dalla pellicola del comunque bravo Jonathan Glazer), lo sconosciuto film russo Attraction di Fyodor Bondarchuk (2017 e mai arrivato in Italia… e che i distributori non si lamentino di Netflix!). Tutti films che sono riusciti (o perlomeno ci hanno provato) a raccontare l’invasione aliena in chiave psicologica e culturale; e in altre parole, a cercarne un profondo perché. Si potrebbe obiettare che si tratta di semplice intrattenimento, ma penso di essere fra coloro che ancora credono che anche all’interno di un contesto leggero possa, anzi debba esserci un piccolo spazio per il pensiero e la riflessione. Un modo come un altro per resistere all’invasione (quella sì, innegabilmente reale) della superficialità.
Foto: © Adler Entertainment