E arrivò il giorno che lentamente, senza fretta, con passo felpato, il glam rock iniziò a scivolare nell’art rock. Bryan Ferry se lo ricorda eccome: «Fu divertente suonare queste canzoni che provenivano da un’altra epoca, del tutto diverse da ciò che stavo facendo coi Roxy Music. E quando per questi show abbiamo aggiunto l’orchestra, ci sembrò qualcosa di speciale. Di conseguenza ci siamo vestiti in cravatta nera…». Rigorosamente in black tie, appunto, poiché l’occasione (il 1° tour in veste solista) lo richiedeva. Un giro di concerti mordi-e-fuggi di appena 3 date: 17 dicembre 1974 alla City Hall di Newcastle, 18 dicembre all’Odeon di Birmingham, 19 dicembre alla Royal Albert Hall di Londra.

Stavolta il mai così azzimato Mr. Ferry punta tutto su These Foolish Things e Another Time, Another Place, gli ellepì incisi in solitaria abilmente posizionati (il 1° esce il 5 ottobre 1973; il 2° il 5 luglio 1974) fra un album dei Roxy Music e l’altro: These Foolish Things giusto a metà strada fra Four Your Pleasure (23 marzo 1973) e Stranded (1 novembre 1973); Another Time, Another Place 4 mesi prima dell’uscita di Country Life. E se contiamo anche l’album d’esordio Roxy Music (1972), in appena 3 anni il singer-songwriter inglese di Washington, nella contea di Durham, inanella la bellezza di 6 dischi.

Messaggio chiaro il suo: I’m with the band e ci sto pure bene (soprattutto adesso che Brian Eno se n’è andato via)… Ma altrettanto gli aggrada svelare i propri gusti musicali, intonare le canzoni anni 50 e 60 con cui è cresciuto, rendere lapalissiano che quel suo innato esser dandy s’ispira e non poco a queste sciocche cose (these foolish things) datate anni 30. Sicchè per 3 serate lascia chiuso a chiave in camerino tutto ciò che suona vistosamente futuribile e glam, indossa lo smoking e si mette a fare il crooner d’altri tempi. È l’ultimo concerto, quello londinese del 19 dicembre, a dare un gusto particolare al suo remaking/remodeling. Vuoi per l’estetizzante location ottocentesca su modello degli anfiteatri romani, vuoi per l’invidiabile stato di forma dell’istrionico protagonista, Live At The Royal Albert Hall 1974 ci restituisce l’incredibile atmosfera della serata con 2 Roxy (il chitarrista Phil Manzanera e il batterista Paul Thompson) ad accompagnarlo, più il chitarrista John Porter, il pianista e violinista Eddie Jobson e il bassista John Wetton che con la band si sono più volte confrontati. Completano l’affollatissima line-up coristi, percussionisti, tastieristi, la sezione fiati e l’orchestra sinfonica diretta da Martyn Ford.

In scaletta, 9 cover tratte da These Foolish Things, 3 da Another Time, Another Place + 2 pezzi siglati Ferry: Another Time, Another Place (per l’occasione trascinante, dal vezzo country rock) e la roxyana A Really Good Time (scintillante ballad di Country Life, impreziosita da pianoforte e archi). Di rivisitazione in rivisitazione, se Sympathy For The Devil (1968, da Beggars Banquet dei Rolling Stones) è pura adrenalina e muscoli guizzanti (più da Wembley Arena che da Royal Albert Hall); I Love How You Love Me (1961, Barry Mann/Larry Kolber, prodotta da Phil Spector e portata al successo dalle Paris Sisters) rimette le cose orecchiabilmente a posto puntando sul vintage pop; Baby I Don’t Care (1957, Jerry Leiber/Mike Stoller, sugli scudi con Elvis Presley e Buddy Holly) è un furibondo rock’n’roll dalla velocità pre punk; It’s My Party (1963, produzione di Quincy Jones per l’ugola di Lesley Gore) è pop music pura e semplice; Don’t Worry Baby (1964, Brian Wilson/Roger Christian) è come se i Beach Boys si tramutassero in un morbido cheek to cheek orchestrale; Fingerpoppin’ (1965, Ike & Tina Turner) si gioca abilmente le carte da rhythm & blues incendiario, con una tonitruante sezione fiati; The Tracks Of My Tears (1965, Smokey Robinson/Pete Moore/Marv Tarplin by The Miracles) ribadisce in soul music la passione black di Ferry, così come l’R&B di The ‘In’ Crowd (1964, autore Billy Page, interprete Dobie Gray).

Si prosegue con la beatlesiana You Won’t See Me (1965, da Rubber Soul) per poi inchinarsi al cospetto di una superlativa, trascinante A Hard Rain’s A-Gonna Fall (1963, Bob Dylan, da The Freewheelin’ Bob Dylan) narrazione dell’altro grande amore di Ferry che in Dylanesque del 2007 avrà modo di viaggiare libero e felice; e si chiude in gloria col crooning al servizio di 2 immortali standard: Smoke Gets In Your Eyes (1958, Jerome Kern/Otto Harbach, The Platters) e These Foolish Things (1935, Eric Maschwitz/Jack Strachey e pescando nel mare magnum di interpreti Nat King Cole, Bing Crosby, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Sarah Vaughan, Etta James, Frankie Laine, Sam Cooke).

L’11 e il 13 marzo 2020 Bryan Ferry rimetterà piede alla Royal Albert Hall. La sua voce, inevitabilmente, non sarà la stessa di ½ secolo fa. L’emozione, in compenso, si taglierà a fette.

Foto: © Mick Rock
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