Stavolta non si ride. Vivaddio, se quando si è tentato (inutilmente) di farlo il risultato è stata la pochezza di To Rome With Love (2012). Semmai si sorride di gusto alle battute pronunciate dai caratteristi Bobby Cannavale e Louis C.K. Stavolta Woody Allen fa il serio e fa sul serio. Non è il nichilista bergmaniano di Interiors (1978) e tantomeno il tragico shakespeariano di Sogni e delitti (2007). Il suo 44° film (li avrò contati bene?) sancisce piuttosto il ritorno alle sue tematiche fondamentali: angoscia, infelicità, menzogna, tradimento. In tal senso, Blue Jasmine (“blue” significa “depressa”, ma si riferisce anche alla canzone Blue Moon, “colpevole” d’aver fatto incontrare la protagonista e il suo futuro, farabutto marito) può tranquillamente giocarsela con Settembre (’87), Un’altra donna (’88), Crimini e misfatti (’89), Alice (’90) e Match Point (2005). Jasmine (Cate Blanchett, premio Oscar più che meritato come migliore attrice protagonista), vola da New York a San Francisco per ridare un minimo di senso alla propria esistenza. Lei, che era stata una sofisticata donna modello Park Avenue sposata al facoltoso uomo d’affari Hal (Alec Baldwin), si ritrova uno zero assoluto (psichicamente e sul conto in banca) che ingurgita senza ritegno Xanax e vodka dopo essere transitata dalle stelle alle stalle. Il marito, infatti, se l’era spassata allegramente accumulando dollari a spese del governo e dei colleghi di lavoro; e per di più la cornificava da una vita. Jasmine, com’è giusto che sia, lo fa arrestare dall’FBI per poi raggiungere a San Francisco la sorella adottiva Ginger (Sally Hawkins), cassiera in un supermarket, condividendone il modesto appartamento e mal sopportando sia il fidanzato “perdente” Chili (Bobby Cannavale), sia l’ex marito Augie (Andrew Dice Clay).

Aggrappate con le unghie all’idea di una vita diversa che non riusciranno mai a raggiungere, le 2 sorelle si confrontano consigliandosi a vicenda: Ginger suggerisce a Jasmine di lanciarsi online come arredatrice d’interni; e nel frattempo, quest’ultima accetta suo malgrado un lavoro di receptionist in uno studio dentistico attirandosi addosso le plateali attenzioni del Dr. Flicker (Michael Stuhlbarg). Ginger, approvando il suggerimento della sorella a scegliere partner che si dimostrino finalmente giusti per lei, inizia invece a frequentare il tecnico del suono Al (Louis C.K.), ipoteticamente migliore di Chili. Jasmine, dal canto suo, intravede una possibilità di riscatto (e un ritorno nei ranghi altoborghesi) incontrando Dwight (Peter Sarsgaard), un diplomatico che s’invaghisce del suo fascino e del suo stile griffato (ormai fittizi, nel vano tentativo di resuscitare l’autostima), per poi fare rapidamente dietrofront. In tutto ciò, a spiccare sono le maiuscole interpretazioni delle protagoniste: la Blanchett, capace di vivisezionare con crisi di panico, timidi sorrisi, sguardi catatonici e occhi stracolmi di lacrime ogni attimo del proprio tracollo esistenziale (dopo una performance così, merita un posto fra le divine di Woody Allen: Diane Keaton, Gena Rowland, Meryl Streep e Dianne Wiest ); la Hawkins, che fa di Ginger una ragazza di periferia buona come il pane, ingenua frequentatrice di sfigati, epigona ideale della Mia Farrow di Broadway Danny Rose (’84) e della Mira Sorvino di La dea dell’amore (’95).

Foto: © Warner Bros. Entertainment Italia