Nel 1971 il “lungo, strano viaggio” dei Grateful Dead proseguiva sotto una buona e una cattiva stella. La band traballava, perdeva pezzi per strada: rosso di vergogna e di imbarazzo, Mickey Hart, 1 dei 2 batteristi, aveva (temporaneamente) mollato il colpo dopo che il padre, anche lui ex percussionista, ex predicatore, negoziante di strumenti musicali e improvvisato manager, aveva sottratto alle casse del gruppo 150.000 $ dileguandosi nel nulla. Intanto Ron Pigpen McKernan, il biker grintoso e corpulento che suonava tastiere e armonica cantando il blues con l’anima, era costretto a saltare diversi show, col fegato ormai a pezzi a causa di un alcolismo cronico che 2 anni dopo gli avrebbe presentato il conto finale. D’altra parte i 2 dischi dell’anno precedente, Workingman’s Dead e American Beauty, compatti, melodici e corali come quelli di Crosby, Stills, Nash & Young ma molto più roots e stradaioli, avevano aperto al gruppo un nuovo mercato permettendogli di colmare quasi per intero il debito contratto nei confronti della casa discografica, la Warner Brothers Records.

Grateful Dead, 1971
© Mary Anne Mayer

Avevano di nuovo voce in capitolo, e potevano proporre all’etichetta un altro album dal vivo dopo il leggendario Live/Dead di 2 anni prima. Così, nel 1971, la WB dà via libera al progetto, anche se boccia l’idea provocatoria del bassista Phil Lesh che vorrebbe intitolare il disco Skull Fuck: un termine molto esplicito e brutale per indicare il sesso orale ma che, spiega loro con pazienza il boss della Warner Joe Smith, precluderebbe l’accesso agli espositori dei grandi magazzini americani tarpando il potenziale commerciale del doppio Lp. La casa discografica decide di chiamarlo semplicemente Grateful Dead, un titolo che genererà confusione con l’album di debutto intitolato The Grateful Dead e che lo farà identificare da quel momento in poi con l’appellativo ufficioso di Skull & Roses: teschio e rose, elementi grafici preponderanti del magnifico disegno di copertina che Alton Kelley e Stanley Mouse, poster artist di San Francisco, avevano realizzato per un concerto all’Avalon Ballroom ispirandosi alle grafiche realizzate nel 1913 dall’illustratore inglese dell’Art Nouveau, E.J. Sullivan, per la raccolta di poesie Rubaiyat del persiano Omar Khayyam. Resterà fra le immagini più iconiche e riconoscibili dei Dead e una perfetta introduzione a un disco spettacolare, splendidamente registrato in concerto tra il marzo e l’aprile del 1971 (prima al Winterland Ballroom di San Francisco, poi all’Hammerstein Ballrooom e al Fillmore East di New York) dai fonici di fiducia Betty Cantor e Bob Matthews e pubblicato negli Stati Uniti il 24 ottobre successivo.

Con qualche mese di anticipo sulle celebrazioni del cinquantenario, Rhino e Warner hanno appena provveduto a ristamparlo con audio rimasterizzato su 2 Cd, 2 Lp e nei formati digitali, risalendo alle matrici originali e aggiungendo (nella versione Cd) agli 11 brani in scaletta 10 pezzi registrati dal vivo il 2 luglio del 1971 al Fillmore West di San Francisco. Quel che conta di più, però, sono i 70 minuti del vecchio disco, che con un solo non trascurabile difetto – i fade out che fanno sparire diverse canzoni dai radar quando sono ancora in pieno volo – e qualche piccolo trucco (l’organo dell’ospite Merle Saunders aggiunto in studio in fase di postproduzione e alcune sovraincisioni vocali) fotografano una band in stato di grazia e in profonda trasformazione, a cavallo di una musica totale in cui si combinano brani inediti, vecchi classici e cover.

Sono passati appena 2 anni, ma dai tempi di Live/Dead sembra trascorsa un’eternità. Psichedelìa, improvvisazione e acid rock non sono dimenticati ma contenuti, imbrigliati: sopravvivono nei 18 minuti di The Other One che occupava l’intera seconda facciata del doppio vinile originale. Una cavalcata incalzante e spagnoleggiante introdotta da un agile assolo di 5 minuti del batterista Bill Kreutzmann; un magma sonoro che a un certo punto passa dallo stato solido a quello gassoso per poi riprendere la forma iniziale; la chitarra solista di Jerry Garcia libera e sfrenata come un puledro selvaggio, mentre il tonante basso di Phil Lesh fa da contrappunto melodico e Bob Weir canta ricavando fraseggi jazzati dalla sua chitarra ritmica. È un lampo nel cielo, la Frisco psichedelica e già svanita della Summer of Love e dei concerti gratuiti al Golden Gate Park che ritorna in vita per condividere il palco con il nuovo sound del gruppo, con il country di Bakersfield, con il blues e con il rock and roll d’antan.

Jerry Garcia, 1971
© Amalie R. Rothschild

La voce rauca, spessa e sporca di Pigpen e la sua lamentosa armonica tornano brevemente alla ribalta in Big Boss Man, un suo cavallo di battaglia ripreso dal repertorio di Jimmy Reed, mentre Weir emerge sempre più spesso dalla seconda fila per presentarsi al microfono e guidare le danze in Johnny B. Goode, un ponte fra Chuck Berry e i Rolling Stones. È
lui a portare nella setlist i pezzi cosmic country che di lì in poi ne faranno parte per molto tempo: Mama Tried di Merle Haggard, paradigmatica storia di un bad boy che a dispetto degli insegnamenti della madre finisce inesorabilmente su una cattiva strada; Me And My Uncle di John Phillips per una volta in vacanza dal sunshine pop di The Mamas & The Papas e la celeberrima Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson, elegia sul viaggio e l’amicizia che Janis Joplin aveva registrato e reso immortale l’anno precedente. Ed è sempre lui a reggere il timone in Playing In The Band, celebrazione gioiosa del fare musica in gruppo che scrive con il paroliere Robert Hunter e che pubblicherà poi sull’album solista Ace, un caposaldo immortale del live set dei Dead – il 4° brano più eseguito di sempre dal gruppo, dicono le statistiche – capace di estendersi dai 4 minuti e ½ di questa versione, a 20 minuti e oltre di jam a ruota libera.

Bob Weir e Jerry Garcia, Fillmore East, New York, 27/4/1971

È una delle 3 composizioni originali che la band presenta nel disco, tutte destinate a restare nel loro repertorio live per i 24 anni successivi: la solare, contagiosa, danzabile Bertha, che apre il programma, da lì in poi scalderà immancabilmente i muscoli e gli animi dei fan strappando loro un sorriso beato; mentre l’ipnotica, intimista e poetica Wharf Rat, con i suoi riff circolari e il suo intermezzo gospel, conferma il talento di Hunter nel ritrarre outsider e perdenti (in questo caso un mendicante ubriacone in cerca di riscatto ed elevazione spirituale) e la magìa del suo ferreo sodalizio con Garcia, il leader che comanda il gioco senza darlo a vedere con la sua chitarra mai invadente ma insinuante, gemente, avvolgente. Jerry e Weir incrociano voci (nel finale liberatorio di Not Fade Away di Buddy Holly, in medley con il tradizionale Going Down The Road Feeling Bad) e chitarre in un dialogo fitto e serrato ma anche sfuggente e impalpabile, un marchio di fabbrica inimitabile cui Lesh, in stretta connessione con la batteria di Kreutzmann, aggiunge non solo un formidabile propulsore ritmico ma anche uno strumento melodico e una voce solista in più.

«Questi siamo noi, gente. È il prototipo dei Grateful Dead», spiegherà Garcia descrivendo i contenuti di un disco che, aggiunge, offre «un’immagine totale» di una band «da saloon e sparatorie». E che proprio con Grateful Dead, mezzo milione di copie vendute in America, agguanta il suo 1° disco d’oro e scoperchia una miniera, invitando i fan nelle note di copertina a manifestarsi fornendo nomi e recapiti per ricevere una newsletter: per la prima volta viene usato il termine Deadheads, e nasce tra gruppo e pubblico un rapporto simbiotico che nessuno riuscirà mai a replicare, capace di alimentare con anni di anticipo su chiunque altro un mercato di pubblicazioni live d’archivio che sforna tuttora nuovi titoli a intervalli regolari. Cominciava così un altro capitolo di quel viaggio strano e lungo, e anche per questo il Live del Teschio e delle Rose è un disco importante.