Più chiaro di così. «La mia vocazione è stata sempre la tragedia. Ma siccome tutti dicevano che facevo ridere, mi sono dedicato ad altro. Avrei tanto voluto scrivere l’Amleto: ora che sono vecchio posso permettermi di farlo». E ancora: «L’omicidio è la stampella del dramma. Un utile espediente per tenere viva l’attenzione e consentire di esplorare tutto il resto: dai grandi delitti della tragedia greca e di William Shakespeare, ai suicidi di Arthur Miller. Togliersi la vita è un altro spunto drammatico per me molto interessante».

Così parlò Woody Allen. Fatalista. Noir. Come certe sue pellicole, in particolare quelle girate a Londra: Match Point, Scoop, Sogni e delitti. Roba, appunto, da delitto e castigo. A me Woody piace anche così: hitchockiano & dostoevskijano. Ma sono fazioso e mi spellerei le mani dagli applausi perfino se si mettesse a girare un docudrama sulle foche monache. In fin dei conti, Allen Stewart Königsberg, classe 1935, non ha fatto altro che ribadire la sua sadica tattica: alternare qua e là in filmografia sorrisi e coltelli, goduriose risate e foschi pensieri. Come quando ha infilato Interiors (puro Ingmar Bergman) fra Io e Annie e Manhattan. E dopo quest’ultimo, Stardust Memories (puro Federico Fellini). E mi ha fatto arrovellare schiaffeggiandomi freudianamente con Settembre, Un’altra donna, Alice, Ombre e nebbia… Ma erano “penitenze ” che valeva la pena di sopportare. Tanto, poi, arrivava sempre il “premio ” della comicità.

Mi sono riletto con l’entusiasmo della prima volta Pura anarchia, il suo ritorno alla narrativa del 2007 ripubblicato da La nave di Teseo (176 pagine, € 19) e gli ridico grazie per avermi fatto ritrovare quel complessato, ipocondriaco, logorroico Woody Allen degli anni d’oro. Che si immedesima in memorabili personaggi buttandoti lì battute del tipo: “Quella sera lottai strenuamente con la mia autostima. E dovetti ricorrere agli emollienti della distilleria Cutty Sark per ricacciare indietro una depressione montante ” (dal racconto Penna offresi). Oppure: “Pur essendo stato uno scettico durante l’adolescenza, negli ultimi tempi avevo finito per credere in un Essere Supremo, dopo aver sfogliato un catalogo di Victoria’s Secret ” (da Glory Glory Hallelujah, venduta!). E ancora: “L’estate scorsa, mentre facevo jogging lungo la Quinta Avenue come stabilito da un programma di fitness mirato a ridurre le mie aspettative di vita a quelle di un minatore del XIX° secolo, mi fermai al bar all’aperto dell’Hotel Stanhope per rinvigorire il mio sfiatato sistema respiratorio con uno screwdriver ghiacciato ” (Avvertenza per i geni: solo pagamenti in contanti).

E sentite un po’ queste: “Esiste un rapporto tra il genio creativo e un sano regime alimentare? Prendiamo il compositore Richard Wagner, e vediamo di cosa non si rimpinza. Patate fritte, formaggio alla griglia, nachos… Cristo, non c’è davvero limite a quell’appetito, eppure la sua musica è sublime! ” (Così mangiò Zarathustra); “Dopo vent’anni passati nella squadra omicidi della polizia di New York, amico, hai visto di tutto. Tipo un broker di Wall Street che frulla il suo pasticcino amoroso per l’uso del telecomando, o un rabbino innamorato che decide di farla finita spolverandosi la barba di antrace e inalando a pieni polmoni ” (Legge Pinchuck).

Woody Allen

Pura Anarchia è strepitoso, addirittura più degli altri suoi libri redatti dagli anni 60 agli 80: Saperla lunga, Citarsi addosso, Effetti collaterali. Il 1°, che nell’introduzione fece esclamare a Umberto Eco «l’idea che Allen sia un grande comico è ormai opinione comune. Si discute solo se sia grande tanto quanto, più grande o meno grande di altri grandi comici del passato, ma è in quell’ordine di grandezze che si fanno i paragoni», frullava umorismo yiddish e una velenosa vena di surreale follìa che capovolgeva miti e mode d’America. Fino alla sentenza finale, senza appello, alleniana sino al midollo: “Provo un intenso desiderio di tornare nell’utero… di chiunque ”. Citarsi addosso, summa delle nevrosi urbane, esibiva invece saggi, diari, memorie e perlomeno un paio di battute da tramandare ai posteri: “Non c’è dubbio che ci sia un mondo invisibile. Il problema è: quanto dista dal centro storico e qual è l’orario di chiusura? ”; “Sarà vero che certe persone possono predire il futuro o comunicare con i morti? E sarà possibile, dopo morti, fare ancora la doccia? ”.

Effetti collaterali, calando l’asso di 16 short-story, spaziava infine dagli UFO  (“In linea di massima, un’accurata indagine sul posto appura perlopiù che gli oggetti volanti ‘non identificati’ sono invece ordinari fenomeni, quali meteoriti, satelliti, palloni sonda e, una volta, perfino un certo Lewis Mandelbaum, saltato in aria coi suoi fuochi d’artificio clandestini ”), a Socrate (“Di tutti gli uomini famosi mai vissuti, quello che di più mi sarebbe piaciuto essere è Socrate. Non tanto perché era un grande pensatore, dato che io stesso sono noto per aver avuto delle pensate discretamente profonde, anche se le mie ruotano invariabilmente attorno a una hostess svedese e a delle manette ”); dai consigli sul buon scrivere formulati del romanziere William Somerset Maugham (“In fondo a una frase interrogativa, ci metta sempre un bel punto di domanda. Dia retta a me. Non ha idea di quanto possa essere efficace ”), alla dolce dipartita (“Preferisco di gran lunga la cremazione alla sepoltura, e tutte due a un weekend con la signora Needleman ”).

Anarchicamente sintonizzato sul caos e la casualità della vita quotidiana, Woody Allen è tornato gran maestro dell’umorismo scritto con queste piccole storie che, prese una per una, potrebbero tradursi in corti o lungometraggi: di quelli, per capirci, col copyright dell’Allen vintage. Con lui, l’occhialuto tascabile, ovviamente protagonista. Magari nei panni di Boris Ivanovic, in piena crisi di nervi perché Misha, il figlioletto di 3 anni, è stato depennato dal miglior asilo di Manhattan (Il rifiuto); o in quelli di Hamish Specter, autore tv di “un fiasco di dimensioni paragonabili al meteorite che estinse i dinosauri ”, che viene assoldato da Moe lo Smazzapreghiere, venditore su eBay di divine suppliche personalizzate (Glory Glory Hallelujah, venduta!). O ancora, nel ruolo di un investigatore privato che viene incaricato dalla femme fatale April Fleshpot a fare un offerta, all’asta, per un libidinoso tartufo (Papille fatali).

I suoi alter ego, stavolta, non si piangono addosso sdraiati sul lettino dell’analista. Escono, fanno cose, vedono gente. Si fanno abbindolare da sarti londinesi che confezionano abiti aromatizzati e fresco lana con sistema d’idratazione incorporato, per curare la depressione e ricaricare i cellulari (Sam, questi pantaloni sono troppo fragranti); scelgono la via della new age per levitare, teletrasportarsi, smaterializzarsi agli ordini di Galaxie Sunstroke, femminea e schiavista visione in lingerie (Errare è umano, fluttuare è divino); soccombono alle angherie della babysitter Velveeta Belknap, “quella Giuda tanto cortese e col sorriso stampato in faccia ” (Tata carissima). E, rincitrulliti da Fabian Wunch, “impareggiabile impresario di boiate ”, assistono a un’ipotetica messinscena di un musical ambientato nella Vienna di Sigmund Freud; con Gustav Klimt, Egon Schiele e Oskar Kokoschka a dar di matto per la bomba sexy Alma Mahler (Ugole Sacher).

Non sono altro che perdenti spiccioli e perdenti cosmici, questi paradossi in carne ed ossa che sognano un bilocale a Park Avenue o una villa con piscina a Bel Air. Ma che ricevono, dalla vita, un’unica chance: la fuga a gambe levate. Temporanea, ci mancherebbe altro.