Ci sono letture facili e altre molto meno… Ma non mi sento un masochista, se ogni tanto affronto fatiche ai limiti delle mie capacità. L’importante è che l’argomento sia tra quelli che più stimolino la mia curiosità. Così mi capita di arrivare alla fine di una lettura come questa (Come il cervello crea la nostra coscienza, Raffaello Cortina Editore, 354 pagine, € 25) e di dover concludere che sono ancora lontano dall’aver capito tutto, ma comunque non credo di aver sprecato il mio tempo. E sono certo che spesso questo libro lo riprenderò in mano.

L’autore si chiama Anil Seth (inglese proveniente da una famiglia di origine indiana e professore di Neuroscienze alla University of Sussex) e dice già tutto nel Prologo, breve e sintetico, dove espone la sua teoria sul formarsi di ogni coscienza. E fin qui tutto sembra chiarissimo: “Che siate o no degli scienziati, la coscienza è un importante mistero. Per ognuno di noi, la nostra esperienza cosciente è tutto ciò che c’è. Senza di essa nulla rimane: niente mondo, niente Sé, niente di interiore o di esteriore ”. Per essere ancora più chiaro, l’autore apre il Prologo con la descrizione di un’anestesìa, esperienza in cui per un certo periodo di tempo la coscienza è totalmente assente (su questo non ci sono dubbi). Dal che si può dedurre che, quando la vita finisce, finisce anche la coscienza. Però come prende forma la coscienza? Cosa significa avere un’esperienza cosciente del mondo esterno e del nostro mondo interiore? Ed ecco che, capitolo per capitolo, si scende nei dettagli di una complessa ricerca sui meccanismi neuronali che sottendono questa esperienza. E qui cominciano i guai.

I primi capitoli sono stati, almeno per me, fra i più difficili. Si parte dalle percezioni sensoriali, primi strumenti per conoscere il mondo (compreso il proprio corpo), e si scopre che, nonostante le apparenze, tali percezioni non muovono dal basso verso l’alto e dal fuori verso il dentro, ma vanno esattamente al contrario. Dunque il nostro cervello, chiuso nella sua prigione ossea eppure tutt’altro che isolato, viene inondato di segnali sensoriali che accoglie con una cascata di previsioni, con cui tenta d’interpretarli nel migliore dei modi, sulla base della Teoria probabilistica di Thomas Bayes (1702-1761). Procede quindi per errori e aggiustamenti per fare in modo che alla fine l’esperienza percettiva dia vita a una specie di allucinazione controllata e controllante: una “fantasia neuronale ”, appunto la coscienza. Ce n’è abbastanza per farmi barcollare come un pugile colpito da un tremendo montante dell’avversario. Ma non è finita: subentrano qui i vari tentativi di misurare il livello di coscienza e di descriverne il contenuto (cioè di cosa si è coscienti, quando si è coscienti?). Ma barcollare non è ancora andare al tappeto: mai arrendersi, mai gettare la spugna… Questa è una battaglia troppo importante!

Forse i primi capitoli sono stati i più difficili, proprio perché erano i primi: dovevo ambientarmi in un procedimento molto complesso e molto astratto che sembrava trasportarmi in un empireo di teorie, piuttosto lontano dalla materia che è contenuta nella scatola cranica e che è responsabile di tutta l’attività mentale. In seguito l’autore procede concentrandosi sul senso del Sé (ipseità), un’altra percezione ma di tipo speciale (un’altra allucinazione!), e infine sulle possibilità di comprendere se e in che misura la coscienza è presente, oltre che nell’uomo, anche in altre creature viventi.

L’interesse per le neuroscienze mi ha travolto, come un’inarrestabile passione, parecchi anni fa; e ci sono stati 2 episodi fondamentali che hanno fatto scattare la scintilla. Il primo quando sono venuto a conoscenza della ricerca sui cosiddetti neuroni specchio da parte della squadra coordinata da Giacomo Rizzolatti all’Università di Parma. Si tratta dei neuroni dell’empatìa, cioè specializzati nel metterci nei panni degli altri, quindi strumenti essenziali per un animale sociale come l’uomo. Il secondo episodio risale alla lettura di L’errore di Cartesio del neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, dove per la prima volta ho incontrato l’espressione “enbodied mind ” (mente incorporata) e dove l’autore dimostra come corpo e cervello costituiscono un organismo unico e indivisibile; perciò rifiuta il dualismo cartesiano che considerava 2 diverse sostanze, la res cogitans (ciò che è spirituale) e la res extensa (ciò che è materia). Sono bastati questi 2 episodi a farmi sentire definitivamente coinvolto nell’universo delle neuroscienze e nelle mille domande sul nostro futuro che suscita questa disciplina.

Certo Anil Seth è un ricercatore scientifico di notevole livello, ma forse come divulgatore non è facilmente abbordabile. D’altronde non è facile nemmeno il suo compito: descrivere una cosa sfuggente come la coscienza, che non è una mente razionale né un’anima immateriale, ma piuttosto un processo biologico, profondamente integrato nel corpo. Qualcosa, sostiene l’autore, che “ha più a che fare con l’essere vivi che con l’intelligenza ”. Insomma una ”macchina bestiale ” che a differenza delle altre macchine prova emozioni riguardo a tutte le sue esperienze (compresa forse l’esperienza stessa di essere cosciente). La teoria della macchina bestiale proposta da Seth mi ha riportato alla rivoluzione darwiniana, a tutto il cammino percorso dalle forme di vita su questo pianeta, dagli esseri monocellulari fino ai nostri più vicini (si fa per dire) progenitori. Ma quando gli esseri viventi sono passati dalla lotta per la sopravvivenza a una prima parvenza di esperienza cosciente? Difficile dirlo…

Il neuroscienziato Anil Seth

Sul finire del volume s’indaga anche sulle ipotesi di una Intelligenza Artificiale in grado di possedere una coscienza: tema di grande attualità, davanti al quale Seth sospende il giudizio. L’autore preferisce non pronunciare un verdetto definitivo, anche se sulla base della sua teoria della macchina bestiale è piuttosto difficile ipotizzare (almeno per ora) lo sviluppo di macchine di silicio capaci di raggiungere una coscienza simile alla nostra. La letteratura fantastica ci è già arrivata da tempo: mi torna in mente la canzoncina infantile che rievoca, mentre viene spento, il computer ribelle Hal nel film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968). La scienza, per fortuna, procede più lentamente e quando forse arriverà a dare una coscienza alle macchine, io spero di non essere più in questo mondo.

Concludendo, mi chiedo se stavolta non ho fatto un passo più lungo della mia gamba, cioè delle mie capacità cognitive; ma mettere un freno alla propria curiosità non è impresa da poco. Anche grazie al miracolo della neuroplasticità del cervello e ai vantaggi che può portare a qualunque tipo di attività mentale, le difficoltà che trovo quando affronto libri come questo mi possono creare momenti di disorientamento; tuttavia non mi scoraggiano mai del tutto. Così come non mi scoraggia il passare degli anni, che in troppi considerano un nemico inesorabile per la memoria e per il pensiero. In fin dei conti è nel continuo esercizio la salvezza per la nostra mente, come quella per il corpo. C’è un aneddoto (forse leggendario) sul grande violoncellista Pablo Casals. Un suo studente, vedendo il maestro ormai 90enne che continuava ad esercitarsi sullo strumento, gli chiese perché ancora lo facesse. E lui rispose: «Perché mi sembra di fare progressi».