«Il riff del secolo», dirà sbalordito uno che se ne intende (Jeff Beck) al 1° ascolto della canzone in studio di registrazione. È quello di Superstition di Stevie Wonder, prodotto una volta tanto non dalle corde di una chitarra elettrica ma da uno strumento inusuale e dal sound allora semisconosciuto: un clavinet, sovrainciso 3 volte, che rimbalza fra i canali stereo «come in un flipper interstellare» (rubo la suggestiva definizione al cantautore e giornalista Bill DeMain), proiettando nel futuro un’invenzione del musicista e fonico Ernst Zacharias che la tedesca Hohner aveva iniziato a commercializzare a partire dagli anni 60 come pratico e più economico sostituto casalingo del clavicordo, destinato agli esecutori di musica barocca del 17° e 18° secolo.

Superstition è un invito esplicito a liberarsi da paure e false credenze per vivere con ottimismo e determinazione la propria vita in un momento in cui una cappa nera oscura il cielo degli Stati Uniti al brusco risveglio del post Watergate; esce nei negozi il 24 ottobre 1972 precedendo di soli 3 giorni l’album, Talking Book, che inaugura un periodo straordinario nella carriera del giovane artista del Michigan aprendo la strada ad altri dischi monumentali come Innervisions e Songs In The Key Of Life.

Stevie Wonder

Scaduto il contratto decennale con la Motown cui era legato da quando aveva 11 anni, il 22enne Stevie lo ha da poco rinegoziato strappando al duro e scafato Berry Gordy Jr. condizioni favorevolissime grazie anche all’astuzia del suo nuovo avvocato Johanan Vigoda. Le 120 pagine del documento prevedono un anticipo di 900.000 dollari, la costituzione di una società di edizioni musicali di sua proprietà e una royalty sulle vendite del 14 % («il tasso delle superstar») oltre alla più completa libertà creativa. Salva la clausola che lascia alla casa discografica di Detroit facoltà di scelta dei singoli da pubblicare: in cambio della sua partecipazione alle sedute di registrazione dell’album, Wonder ha promesso a Jeff Beck 1 dei suoi inediti, optando prima per Maybe Your Baby e poi proprio per Superstition; ma quando quella vecchia faina di Gordy la ascolta fiuta subito il colpaccio, brucia sul tempo il furente chitarrista e il boss della Columbia, Clive Davis, e pubblica a tempo record il 45 giri. La versione di Jeff uscirà solo 1 anno dopo sull’album Beck, Bogert & Appice, e l’imbarazzatissimo Steve si farà perdonare donandogli in seguito 2 pezzi per Blow By Blow, l’Lp del 1975.

Intanto quel fantastico electro funk schizza al N°1 in classifica (a Wonder non succedeva dai tempi di Fingertips, 1963), diventa il suo immortale biglietto da visita e un lasciapassare crossover verso il mercato pop-rock e il pubblico bianco, che già in parte lo conosce per averlo ascoltato dal vivo quando fra il giugno e il luglio del 1972 Stevie aveva aperto il tour americano dei Rolling Stones. Il suono «brutto, sporco e cattivo» di quel clavinet – come lo definisce Ray Parker Jr. (sì, quello di Ghostbusters), membro della sua band Wonderlove e presente alle session di Talking Book come chitarrista – consente a Stevie, polistrumentista che nei suoi dischi suona di tutto (batteria compresa), di emulare i timbri dell’unico strumento che non è mai riuscito ad ammaestrare: la chitarra elettrica, appunto.

La tromba di Steve Madaio e il sax tenore di Trevor Lawrence creano un dinamico contrappunto alla sua straordinaria e duttile voce, ma l’altro segreto del pezzo è l’effetto “slap echo ” che applicato alla tastiera produce «un sound in più fra le note, anche fra quelle suonate a tutta velocità» come spiega Malcolm Cecil, lo stregone dell’elettronica che insieme al compare Robert Margouleff già dal precedente Lp Music Of My Mind ha messo a disposizione di Wonder le sue competenze in materia e un mastodontico strumento da 2001: Odissea nello Spazio che la coppia ha battezzato TONTO: acronimo che sta per The Original New Timbral Orchestra, il più grande sintetizzatore modulare al mondo con pannelli di legno, tastiere, manopole, lucine lampeggianti e chilometri di cavi (recuperati, sostengono loro, nientemeno che alla Nasa). Stevie ne è rimasto folgorato: «Molti non considerano il Moog uno strumento», spiega alla giornalista inglese Penny Valentine, «e invece ti permette di esprimere direttamente ciò che ti proviene dall’anima. Con un oscillatore puoi prendere un suono e modellarlo esattamente nella forma che desideri».

Soprattutto se, come fa lui, lo utilizzi alla stregua di una vera e avveniristica orchestra virtuale. Così, se l’ossessivo dramma della gelosia di Maybe Your Baby, le pieghe serpentine di You’ve Got It Bad Girl (lato B di Superstition firmata insieme a Yvonne Wright) e la crepuscolare e delicata You And I (We Can Conquer The World) suonano come Prince con 10 anni d’anticipo, lo si deve anche a quel marchingegno da centro spaziale, oltre che agli altri strumenti e alle voci minuziosamente sovraincise sui multitraccia in dotazione all’Electric Ladyland di New York, al Crystal Sound di Hollywood e a un altro paio di studi.

In piena trance ispirativa il ragazzo delle meraviglie sforna canzoni a getto continuo, non dorme mai e sveglia nel cuore della notte anche i collaboratori: compresi Jim Gilstrap e Lani Groves, coppia di amanti ancora sonnecchianti cui affida le prime 2 strofe dell’altra grande hit dell’album: la morbida, celestiale e romantica You Are The Sunshine Of My Life introdotta da conga, basso e piano elettrico Fender Rhodes che a sua volta sale al N°1 della classifica di Billboard, vince un Grammy Award e diventa uno standard interpretato da stelle di prima grandezza come Frank Sinatra e Liza Minnelli. I 2 singoli bomba soddisfano la Motown, ma in Talking Book Wonder va anche in altre direzioni dando pieno sfogo alla sua creatività e alla sua ambizione. Dopo aver ascoltato Zero Time della Tonto’s Expanding Head Band di Cecil e Margouleff, What’s Going On di Marvin Gaye e Switched-On Bach di Walter Carlos, è alla ricerca di un inedito connubio fra soul ed elettronica, misticismo cosmico e poesia urbana, suoni naturali e sintetici che si mescolano quasi indistinguibili in un album biografico dove ogni canzone equivale alla pagina di un libro.

La confezione è deluxe e curatissima, con busta apribile, testi dei brani e crediti completi. Nella prima tiratura un messaggio stampato in braille chiarisce l’intento dell’artista (“Ecco la mia musica. È tutto quel che ho per dirvi come mi sento. So che il vostro amore dà forza anche al mio –Stevie ”), mentre la copertina mostra il suo nuovo look per la prima volta senza occhiali scuri, con i capelli raccolti in treccine, monili indiani e un caffetano di velluto. La ricerca di una nuova dimensione spirituale è frutto della separazione dalla moglie Syreeta, che gli ha spezzato il cuore spingendolo a riflettere sulle tante facce dell’amore; i fatti di cronaca, invece, lo portano a una nuova consapevolezza della sua identità afroamericana: fra le pieghe countreggianti e l’armonica di Big Brother, evoca il Grande Fratello orwelliano mettendosi nei panni degli emarginati che vivono nel ghetto in case grandi come una scatola di fiammiferi e infestate di scarafaggi, indifferenti alle promesse elettorali di chi “ha ucciso tutti i nostri leader ”.

Non ci sono limiti all’immaginazione e ai colori strumentali. Nella ballad Blame It On The Sun Wonder suona anche un clavicembalo. Nella nostalgica ma più ritmata Tuesday Hearbreak cattura al volo un magico fraseggio del sax alto di David Sanborn, altro componente dei Wonderlove ancora stordito dopo aver partecipato a un party organizzato da Mick Jagger durante il tour dei Rolling Stones. E in Lookin’ For Another Pure Love, dopo un’intro che rievoca You Are The Sunshine… , lascia spazio a 1 assolo di chitarra elettrica di Jeff Beck. Si permette di usare quei fuoriclasse come pedine di un gioco di scacchi che governa da solo e in cui a volte non ha bisogno di nessun aiuto esterno (come per esempio nella conclusiva e liberatoria I Believe (When I Fall In Love It Will Be Forever)). È cresciuto in fretta, a velocità supersonica. Non è più l’enfant prodige costretto a vivere all’ombra di un padre padrone, ma un adulto che sa esattamente cosa vuole, che indica una strada ai colleghi e ai fratelli neri e che nella sua cecità ha cominciato a vedere più lontano di tutti.

Stevie Wonder, Talking Book (1972, Tamla Motown)