Quando Berry Gordy Jr., padre padrone della Motown, coniò per la sua casa discografica il celebre slogan “the sound of young America ”, intendeva proprio quello: una musica destinata a tutto il pubblico giovane della nazione senza distinzioni di razza, di sesso, di cultura e di classe sociale.
Il soul pop dell’etichetta di Detroit fabbricato da produttori, autori e interpreti di pelle nera, si rivolgeva a una massa indistinta di adolescenti e di giovani adulti. Perché non fare altrettanto con il rock, che in quel momento parlava con identica efficacia al cuore e alla mente di una generazione? Per questo Gordy iniziò a scritturare anche artisti di pelle bianca, lanciando in funzione di quell’ampio segmento di mercato alimentato dalla programmazione delle nuove radio FM un marchio sussidiario, Rare Earth, che prendeva il nome da quello della band più promettente della scuderia.
I Rare Earth erano anche loro di Detroit, avevano già un bel rodaggio alle spalle (avendo esordito nel 1960 con il nome di Sunliners) e amavano il rhythm & blues quanto il rock: erano il perfetto anello di congiunzione fra i 2 generi e i 2 mondi, innervato da una bella iniezione di psichedelìa; e lo dimostrarono perfettamente nell’album Get Ready che la Rare Earth consegnò ai negozi il 30 settembre 1969, confezionato in una lussuosa copertina fustellata e anche incluso in un box promozionale realizzato per il lancio del marchio assieme al leggendario concept dei Pretty Things, S. F. Sorrow; e a Lp di Love Sculpture, Rustix e Messengers. Una versione drasticamente tagliata della title track, cover del brano che i Temptations avevano pubblicato nel 1966, uscì come singolo su un 45 giri: 2 minuti e 46 secondi estratti dai 21 minuti e ½ della registrazione originale.
Mossa azzeccatissima, dato che dopo avere infiammato le stazioni radio black di Chicago, Filadelfia, Baltimora e Washington D.C. (disposte a mandare in onda anche la infinita “album version ” che dava modo ai dj di riposarsi, andare in bagno e farsi una pausa caffè) e dopo uno stallo iniziale che mise in ansia musicisti e discografici, la Get Ready dei Rare Earth, N°4 nella classifica pop statunitense nel 1970, ottenne risultati decisamente migliori di quella dei Temptations (N°1 nella chart r&b ma solo n. 29 in quella pop), contribuendo a fare del brano scritto da Smokey Robinson – che proprio a causa del parziale insuccesso del pezzo aveva dovuto rinunciare al ruolo di produttore del gruppo – un evergreen.
Dopo averla suonata dal vivo fin dai tempi dei Sunliners e averne pubblicata una prima versione sull’album di debutto Dreams/Answers uscito per la Verve nel 1968, su insistenza della Motown i Rare Earth decisero di riprovarci: un primo tentativo non fu soddisfacente, ma il 2° produsse quella take travolgente e frastornante che dopo una lunga introduzione quasi prog e di oltre 2 minuti si riappropriava del riff originale amplificandolo, indurendolo e ingigantendolo: gli applausi posticci (e un po’ fastidiosi) aggiunti in fase di postproduzione servivano a dare l’idea di un’esecuzione live e in gran parte improvvisata, con il ringhio macho della voce del batterista Pete Rivera in luogo del falsetto di Eddie Kendricks e ampi spazi solistici riservati a tutti gli strumenti (2 minuti abbondanti per quello di batteria) in un turbine psych–funk–rock degno di quelli che 1 mese e ½ prima Sly and the Family Stone aveva fatto assaggiare al pubblico del Woodstock Festival.
Montate le sue attrezzature nella sala dello studio Hitsville, il gruppo aveva iniziato a registrarla alle 2 di mattina proseguendo la session fino alle luci dell’alba. «La suonavamo sempre come pezzo conclusivo ai concerti, e dunque durava già allora 21 minuti», ha raccontato il sassofonista Gil Bridges al sito americano Louder. «E siccome In A Gadda Da Vida degli Iron Butterfly occupava un’intera facciata di 1 album, pensammo che potevamo fare altrettanto. Quando informammo la Motown dei nostri piani andarono fuori di testa. Era contro la loro natura, ma ci lasciarono fare. E funzionò alla grande».
Del resto aveva un groove pazzesco, irresistibile. E non stupisce che nel Bronx newyorkese ballerini e dj (a partire da un pioniere dell’hip hop come DJ Kool Herc) si siano tuffati con gusto fra quei solchi. Né che da quel momento il pezzo sia rinato a nuova vita, non solo ai piani alti della Motown – Robinson, i Miracles, le Supremes e gli stessi Temptations – ma anche grazie ai nordirlandesi Ash, agli scozzesi Proclaimers, ai Black Eyed Peas e alla loro cantante solista Fergie. Fu l’unico singolo selezionato dal disco premiato poi con 1 doppio platino, anche se i 5 brani contenuti nella prima facciata non erano da meno.
Il talento dei Rare Earth nella manipolazione delle cover era confermato da una gran versione marcatamente organistica di Tobacco Road di John D. Loudermilk, lo standard blues in quegli anni nel repertorio anche di Jefferson Airplane, Spooky Tooth ed Edgar Winter; e prima ancora di Nashville Teens e di Lou Rawls, ricreata in un suggestivo clima sonoro che faceva pensare a Chicago e a San Francisco, più che a Detroit; da una rilettura altrettanto funk e tignosa di Feelin’ Alright dei Traffic che aveva poco da invidiare a quella pubblicata pochi mesi prima da Joe Cocker; e da Train To Nowhere dei Savoy Brown, che quello stesso anno aveva aperto Blue Matter, il 3° album della formazione britannica guidata da Kim Simmonds.
D’altra parte il quintetto del Michigan sapeva il fatto suo, anche quando c’era da mettere sul tavolo qualche composizione originale come l’inno alla fratellanza Magic Key e una In Bed che parlava di sesso, vita e morte: un’altra coppia di gagliardi soul rock psichedelici, perfetti per un ascolto in poltrona con un joint in mano come per scatenarsi sulle piste da ballo. Perché sì, i Rare Earth erano anche una grande dance band composta da fior di musicisti. Rivera (vero nome Peter Hoorelbeke) era un rullo compressore percussivo che alla stregua di altri batteristi come Buddy Miles o Levon Helm della Band cantava sfoderando una voce da bluesman o da soulman afroamericano. Il sassofonista Bridges era abituato a prendersi spesso il proscenio con i suoi rauchi assoli r&b. Il chitarrista, Rod Richards, ci dava dentro con i pedali, il fuzz e gli effetti assicurando al gruppo una sostanziosa iniezione di acid rock vagamente hendrixiano. John Persh era un bassista agile e muscolare che suonava anche il trombone. E Kenny James alternava piano elettrico e organo piazzandosi agevolmente a metà strada fra Jimmy Smith, Booker T. e Ray Manzarek dei Doors (erano tutti buoni cantanti, fra l’altro).
Grazie a Get Ready (la canzone), intanto, erano riusciti in un piccolo miracolo come loro stessi hanno più volte sottolineato: spinti inizialmente dalle emittenti afroamericane, quei 5 ragazzi bianchi si ritrovarono a suonare nelle metropoli statunitensi davanti a un pubblico composto prevalentemente da gente di pelle nera, sorpreso quanto loro. Dando, inconsciamente, un non trascurabile contributo all’abbattimento degli steccati razziali e di genere e alla nascita del concetto di crossover in una società e in un mercato discografico ancora rigidamente suddivisi in categorie poco permeabili. Una bella favola, proseguita con diversi altri singoli e album di successo, ma con un finale amarognolo: 2 dei membri originali ancora in vita, Rivera e Bridges, non si parlano da decenni mentre nel museo della Motown, immemore del gruppo anche in occasione delle celebrazioni del suo 25° e 50° anniversario, dei Rare Earth non c’è traccia.
Rare Earth, Get Ready (1969, Rare Earth)