Sarebbe stato 1 dei concerti dell’anno, non si fosse messa di mezzo un’influenza. Scampata alla pandemìa, la stella del bluegrass Alison Krauss ha contratto la settimana scorsa un virus che ha costretto lei e Robert Plant a cancellare 2 date in Belgio e in Olanda prima di ripresentarsi sul palco, il 13 luglio, a Montreux. Ma è ancora visibilmente debilitata, lontana dalla forma migliore e si sta riprendendo poco a poco: e così la scaletta originale dello show, 20 pezzi nelle date americane poi ridotti a 18, si riduce ulteriormente a 13 canzoni tagliando gioco forza quasi tutte quelle in cui avrebbe dovuto essere lei ad assumere il ruolo di voce solista o a rispondere vigorosamente in controcanto (come in The Battle Of Evermore).

Di scuro vestita e avvolta in una vestaglietta multicolore da signora di campagna dell’Illinois, la bionda e angelica Alison sorride radiosa soprattutto quando, divertito, il Golden God le fa notare un cartello che la incita sollevato in prima fila da una giovane e scatenata fan di lingua inglese. Poco prima aveva fatto sgorgare la sua voce forte, limpida e pura come un ruscello appalachiano nell’unico pezzo in cui ha osato prendersi la scena: Trouble With My Lover, un soul di matrice New Orleans che in questa versione si avvolge di una fumosa cortina blues. Il resto dell’esibizione, però, poggia tutto sulle spalle di Robert: riccioli d’oro, sgargiante camicia blu e pantaloni in pelle nera da rock star, che si guarda intorno compiaciuto, batte le mani a tempo e sprona ammirato i compagni di band, il cast perfetto per la sceneggiatura che hanno imbastito.

Robert Plant

Non ci sono stavolta star come T Bone Burnett, produttore dei 2 album della coppia; e maghi della chitarra quali Marc Ribot o Buddy Miller; ma il formidabile, polimorfo batterista Jay Bellerose e Dennis Crouch (contrabbasso), sono oltre che una coppia inseparabile la migliore sezione ritmica di tutti i migliori dischi di roots music americana di questi anni; il fratello di Alison, Viktor, compunto e incravattato, un solido appiglio tra chitarre e mellotron; Stuart Duncan (chitarre, violino, mandolino), in camicia floreale e con lo sguardo assorto, un jolly da giocare nei momenti strategici; e il più giovane della ciurma, il chitarrista dell’Oklahoma JD McPherson munito di pizzetto e di una splendida collezione di chitarre custom che rimandano a suoni d’altri tempi, un entusiasta revivalista il cui stile rockabilly fa pensare spesso e volentieri a quello di un session man della Sun Records nella seconda metà degli anni 50 del secolo scorso.

Sono, in fondo, una cover band, ma di livello eccelso e che evita accuratamente l’effetto juke box: è tutt’altro che scontata, e anzi ricercatissima, la scelta di un repertorio che copre un arco temporale che spazia dal blues degli anni 30 alla produzione contemporanea dei Calexico e di Lucinda Williams. Setacciano a fondo i 2 celebrati dischi di Plant & KraussRaising Sand del 2007 e soprattutto Raise The Roof dell’anno scorso – e nel loro set i Led Zeppelin non hanno più peso degli Everly Brothers o di Allen Toussaint. «Ho sempre cantato da solo», spiega a un certo punto Plant ricordando la sua passione giovanile per Sonny Boy Williamson, Howlin’ Wolf e Muddy Waters, «ma questi ragazzi mi hanno insegnato la bellezza del close harmony», le armonie “strette” in cui 2 o più voci si accoppiano cercando una consonanza che, aggiunge, hanno fatto risuonare nella sua testa un campanello.

È l’ingrediente fondamentale del progetto musicale di Robert e Alison e lo sarebbe anche di questo show, non fosse che in questo caso il rapporto è pesantemente sbilanciato e la Krauss finisce per auto confinarsi in un ruolo di spalla e da corista. Il blues non è dimenticato; e colora, anzi, di tinte gravi e drammatiche 1 dei momenti più suggestivi e spettrali della serata, You Led Me To The Wrong della folk singer e banjoista Ola Belle Reed, mentre l’ukulele evoca confini tex mex in Quattro (World Drifts In) e una spensierata Rock And Roll è una delle 2 sole concessioni al popolo zeppeliniano, servita però come fosse un hoedown, una quadriglia da festa campestre con il violino a condurre le danze.

Alison Krauss

I 7 materializzano arrangiamenti vari e calibratissimi con intelligenza, classe e stile oltre misura: la loro è una musica raffinata e da intenditori in cui è sempre la canzone al centro della performance e l’eccellenza degli strumentisti resta costantemente al suo servizio senza una goccia di superfluo virtuosismo in più; mentre la voce di Plant, in gran spolvero, si avventura solo in un paio di occasioni nell’urlo primordiale dei tempi che furono (opportunamente sostenuta da echi ed effetti) sfoggiando per il resto un mirabile controllo dei toni e nuance da centellinare come un buon vino stagionato.

Forse non tutti lo colgono al primo colpo, specie se hanno poca familiarità con il catalogo, ma è impossibile non farsi stregare dalla loro abilità di cercatori di pepite, pezzi come l’altra gemma nascosta di r&b neorleansiano Rich Woman, Fortune Teller (una vecchia b side di Benny Spellman entrata nel primissimo repertorio dei Rolling Stones e degli Who) e Gone, Gone, Gone degli Everly Brothers, swinganti, deliziosamente vintage e sensualmente flessuose; mentre la stupenda e malinconica folk song britannica Go Your Way (Anne Briggs) si irrobustisce con chitarre elettriche decisamente rock, la melodia di Please Read The Letter brilla più che mai grazie agli accordi di una acustica e a un solo della Krauss e una trascinante Leave My Woman Alone (Ray Charles rivisitato dagli Everly Brothers) ingrana una marcia in più nel momento in cui Duncan si mette a maltrattare il suo mandolino.

Quando poi Stuart incrocia il violino con quello di Alison sono fuochi di artificio: soprattutto nella rivisitazione di When The Levee Breaks, il momento magico e indimenticabile della serata, in cui il blues degli Zeppelin e di Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy sembra emergere dalle acque del Gange e mettersi in viaggio tra il Kashmir e l’Atlante marocchino (con un’altra e ripetuta citazione di 1 brano zeppeliniano, Friends) mentre Bellerose esalta percuotendo come una piovra il suo rullante coperto da un asciugamano e un kit anni 40 che ricorda quello di un vecchio jazzista.

Nelle prime file tutti sorridono (come i musicisti sul palco, che di frequente incrociano gli sguardi), e quando nel bis il ritmo si fa di nuovo sostenuto con Can’t Leg Go, una vecchia hippie inglese decisamente alticcia si alza a ballare raggiunta da una ragazzina italiana. Avrebbero gradito continuare, più indietro e più tardi sul web emergono mugugni e proteste per l’ora e 10 di concerto (poco più dell’esibizione di grande impatto offerta in apertura da Carmen Consoli e Marina Rei), ma per stasera bisogna purtroppo accontentarsi.

© Lucca Summer Festival Facebook

La scaletta: Rich Woman (Li’l Millet and His Creoles cover), Quattro (World Drifts In)(Calexico cover), Fortune Teller (Benny Spellman cover), Rock and Roll (Led Zeppelin cover), Please Read The Letter (Jimmy Page & Robert Plant cover), High And Lonesome, You Led Me To The Wrong (Ola Belle Reed cover), Trouble With My Lover (Allen Toussaint and Leo Nocentelli cover), Go Your Way (Anne Briggs cover), Leave My Woman Alone (Ray Charles/Everly Brothers cover), When The Levee Breaks (Memphis Minnie & Kansas Joe McCoy/Led Zeppelin cover), Gone Gone Gone (The Everly Brothers cover).

Encore: Can’t Let Go (Lucinda Williams cover).