Anno 2000, Londra. Una tranquilla pensionata, Joan, viene improvvisamente arrestata dai servizi segreti britannici. Da qui, e attraverso l’interrogatorio, si dipana una rete di ricordi e racconti sull’insospettabile passato dell’anziana donna. Infatti, nel 1938 Joan studia Fisica a Cambridge e viene coinvolta da un’associazione studentesca di stampo comunista. In questo contesto, conosce e si innamora del giovane Leo Galich, affascinante tedesco d’origine russa che segnerà per sempre la sua vita. Passano gli anni, scoppia la guerra e lei, conseguita la laurea (o meglio: un “certificato”, poiché per le donne non era prevista) viene coinvolta nelle ricerche sull’atomo che porteranno inglesi, canadesi e americani a definire la tecnologia per la costruzione di un ordigno nucleare. Mentre gli americani seguono una loro strada che li condurrà a “sperimentarlo” con l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, britannici e canadesi proseguono le loro ricerche combattuti dall’ipotesi di condividere le proprie conoscenze con gli alleati russi. Joan, sconvolta dai bombardamenti sul Giappone, spinta e coadiuvata da Leo decide di diventare una spia per conto dell’Unione Sovietica: non tanto per convinzione politica, quanto per la necessità etica di equilibrare le conoscenze e proteggere l’umanità dal “mostro nucleare”: cosa che, a suo avviso, contribuirà – come dimostrato dalla Guerra Fredda – a evitare un nuovo utillizzo dell’arma letale.
Red Joan, di Trevor Nunn, sembrerebbe dunque scavare nei ricordi, nei pensieri e soprattutto nella coscienza della giovane ricercatrice inglese. Il tutto sorretto da una splendida Judi Dench nei panni di Joan anziana, Sophie Cookson in quelli della giovane, di altri bravi attori quali Stephen Campbell Moore (il capo di Jane) e Tom Hughes (Leo) nonchè della fotografia patinata e precisa di Zac Nicholson e del montaggio a tratti sorprendente di Kristina Hetherington (i ricordi di Joan non vengono mai narrati ma descritti da lunghi flashback, a volte a discapito della recitazione di Judi Dench costretta troppo spesso a dare solo volto ed espressione alle emozioni). A mio avviso, poi, qualcosa non funziona. La sceneggiatura di Lindsay Shapero finisce per sopraffare la struttura del film, dandone una dominante prevalentemente rosa. Il personaggio di Joan viene confinato in quello di una donna mai responsabile delle proprie scelte ma sempre coinvolta, trascinata, sedotta e “fatta crescere” nel bene e nel male da figure maschili. Anche la scelta etica, che dovrebbe essere il fulcro del plot narrativo, finisce quasi per essere vista come una vendetta della protagonista nei confronti di un mondo maschile che sembra non darle spazio. Sicchè un tema così importante e terribile come l’opzione nucleare finisce relegato sullo sfondo, senza dar tempo allo spettatore di riflettere sulla questione morale dell’impegno intellettuale e scientifico nei conflitti militari di ieri e di oggi.
Infine, regista e produzione definiscono (come si usa sempre più spesso) il film “tratto da una storia vera“. In realtà la vera Joan, Melita Norwood, convinta militante comunista, giustificò la propria lotta più per questioni politiche e sociali che etiche. Infatti, in un’intervista concessa a BBC News ci racconta: «Ho fatto ciò che ho fatto non per soldi, ma per aiutare a prevenire la disfatta di un nuovo sistema (quello sovietico e comunista, n.d.r.) che aveva dato, a un costo elevato, cibo, cure, una buona educazione e un servizio sanitario adeguato a chi non se li poteva permettere». Quindi cosa intendiamo per “tratto da una storia vera”? In un’epoca dove la memoria e la conoscenza sono sempre più veicolate da film e da sommarie informazioni sui social, penso che registi e produttori debbano avere l’onestà intellettuale di chiarire che si tratta di storie “liberamente ispirate a…”. Magari belle, ma storie.
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