Uscendo dal cinema mi sono detto: cavolo, devo scrivere la recensione! Infatti, come non mi capitava da tempo, ho trascorso 1 ora ½ a godermi un film senza pensare ad altro. Certo, Rapina a Stoccolma è ben fatto (e ne parleremo più avanti) ma si è rivelato soprattutto una coinvolgente sorpresa. Naturalmente le atmosfere non sono quelle della pellicola d’autore: semmai galleggiano su una commedia a tratti commovente ma maledettamente ben realizzata.

Diretto dal canadese Robert Budreau, il film è ispirato – e qui consentitemi un “tanto per cambiare” – a una storia vera: il 23 agosto del 1973 Jan-Erik Olsson, evaso dal carcere, irrompe nella sede della Sveriges Kredit Bank, prende in ostaggio 3 donne, 1 uomo e chiede soldi, un’auto («Come quella di Steve McQueen in Bullitt») e la liberazione di un altro detenuto. Il fatto si protrae per più di 130 ore in un clima ad alta tensione dove il governo svedese sembra disposto a mettere a repentaglio l’incolumità degli ostaggi pur di dimostrare inflessibilità nel rispetto della legalità e dell’ordine. Ma la reazione degli ostaggi è inaspettata: dalla critica aperta al governo fino all’appoggio incondizionato, che sfiora la complicità, nei confronti dei sequestratori . Questi ultimi, infatti, si dimostrano gentili e comprensivi tanto da far scaturire, da parte delle loro vittime, un crescente senso di gratitudine che forgerà, in ambito psicanalitico, il termine Sindrome di Stoccolma che proprio da qui trae origine.

Il film gioca sul tutto allo scopo di renderlo più accattivante, modificando qua e là personaggi (le donne diventano 2) e dinamiche interpersonali. In altre parole, non è una ricostruzione storica ma un film “liberamente ispirato a” la cui trama si sviluppa attorno al rapitore Lars Nystrom (che s’ispira a Olsson) e alla rapita Bianca Lind (apparentemente slegata da riferimenti a un personaggio reale), splendidamente interpretati da Ethan Hawke e Noomi Rapace.

Incredulità, paura, infine interesse e rispetto reciproco, portano infatti i 2 a un rapporto sempre più intenso e complice. Dall’altra parte della barricata, invece, il volto rigido, burocratico e inflessibile del capo della polizia Mattson (Christopher Heyerdahl) e l’indifferente ministro ci fanno subito capire da che parte stare. E da qui una domanda sembra lecita: davvero il film parla della Sindrome di Stoccolma? O sfiora temi come la rigidità, la legge al di sopra dell’umanità e delle relazioni, gli stereotipi? A voi l’analisi.

Altra mattatrice indiscussa è la musica (con infinite citazioni agli anni 70 ma soprattutto a Bob Dylan) che contribuisce insieme a un look cinematografico equilibrato ma decisamente ispirato a quel periodo (dall’utilizzo di ottiche vintage a movimenti di macchina calibrati e mai frenetici, seppure in un contesto da commediathriller) a dare al tutto un clima paradossalmente on the road. Lea Carlson, la costumista, nella scelta dell’abbigliamento del protagonista sembra infatti essersi ispirata a Easy Rider.

Foto: © M2 Pictures