«Avevo appena ascoltato i provini del nuovo trio del sassofonista Chris Potter ed ero rimasto impressionato dal suono d’insieme e in particolare dal genio creativo di James Francies, tastierista fantastico. Volevo lavorare con lui e così è nata questa collaborazione».

Chi parla è Pat Metheny. Vale a dire colui che oggi – più di chiunque altro – rappresenta lo zenith della chitarra jazz a 360°. Lo raggiungo via email e lui (come ogni volta) mi risponde con grande cortesia ribadendo anzitutto il proprio amore per l’Italia. Pat ha da poco pubblicato l’album Side-Eye NYC (V1.IV) su etichetta Modern Recordings, ennesimo capolavoro a ribadire la grandezza di un musicista che non si è mai addormentato sugli allori ma ha sempre condotto una ricerca personale che l’ha portato a collaborare con i più diversi ambiti espressivi: da Ornette Coleman a Michael Brecker, da Joni Mitchell a Arvo Pärt, da John Zorn a Charlie Haden. Mr. Metheny è entusiasta del nuovo disco e non tradisce certo la sua emozione.

Possiamo tranquillamente affermare che dopo Lyle Mays il chitarrista e compositore americano abbia trovato in James Francies un compagno d’avventura degno di questo nome…

«Certamente. James è un musicista straordinario, dotato di un’inventiva e di una capacità rarissime nell’adattarsi alle esigenze dei musicisti con i quali collabora. Con Chris Potter, nel Circuits Trio, il suo apporto è fondamentale: si integra a meraviglia con i sax di Chris e le trame percussive di un altro genio che voglio elogiare, il batterista Eric Harland. Fin dalle prime prove fatte insieme, James è riuscito a entrare nelle mie concezioni musicali, ad arricchirle, a impreziosirle con trovate geniali e pertinenti stimolandomi a suonare ai massimi livelli, poiché è una sfida continua confrontarsi con lui. In Side Eye NYC rivisitiamo una serie di mie composizioni che risalgono al mio 1° album solista, Bright Size Life del 1976, in cui figuravano Jaco Pastorius al basso e Bob Moses alla batteria. Viceversa, in questo disco non esiste il basso: le parti di basso sono affidate alle tastiere, e riuscire a combinarle con le invenzioni soliste del piano elettrico, dell’organo e dei synth non era compito facile. Bene, James ha svolto un lavoro entusiasmante che mi ha consentito di esprimermi al massimo e di poter contare su un apporto melodico e strutturale del brano sempre adeguato e corretto».

Pat Metheny e Marcus Gilmore
© Dino Perrucci

Side-Eye NYC, infatti, si snoda in una serie di esibizioni per lo più live nelle quali Pat – affiancato appunto da James Francies, da Marcus Gilmore alla batteria e in altri casi da altri drummer, fra cui Eric Harland e Joy Dyson – rinnova il linguaggio elettrico portandolo a un ulteriore livello espressivo. La magìa dell’interazione e del dialogo serrato fra i protagonisti, è la chiave della riuscita di un album che vive di spontaneità, ma anche di una grande intesa e di un lavoro certosino che hanno consentito di raggiungere certe vette artistiche. D’altronde, se da quando sei apparso sulla scena musicale non hai rivali in campo chitarristico, un motivo ci sarà pure… C’è invece chi si ostina a non sopportare Pat Metheny e vorrei capirne le motivazioni, al di là di una personale antipatia che non riuscirò mai a comprendere e che lo denigra come fosse un mestierante. Al contrario, siamo al cospetto di colui che dopo John Mc Laughlin e Larry Coryell ha elevato il linguaggio chitarristico dimostrandosi compositore di un livello nettamente superiore a chiunque altro.

John Scofield? Bill Frisell? Julian Lage? Kurt Rosenwinkel? Nir Felder? Ottimi strumentisti, certo, ma che talvolta si suonano addosso non riuscendo a portare avanti una ricerca che spesso è dolorosa in termini di vita privata, di emozioni e di stress, che invece Pat sa condurre con maestrìa, eleganza, totale partecipazione. In questo nuovo lavoro rimette in discussione 30 anni e più di carriera non disdegnando (anzi, incitando) il confronto con le nuove generazioni e le nuove musiche contemporanee. Imbraccia la sua Gibson e la fa svettare, mattatrice di cavalcate entusiasmanti e coinvolgenti, come da tempo non ci capitava di ascoltare da parte di un chitarrista. Prendete ad esempio il brano d’apertura, It Starts When We Disappear: pennellate liquide di chitarra si stagliano su un tappeto ipnotico di tastiere rimandando alle atmosfere del Pat Metheny Group, senza alcuna “operazione nostalgia” ma ripartendo da allora per una cavalcata travolgente e ipnotica che conduce in un Nirvana, in uno stato emozionale di puro piacere sonoro se non di estasi. Pat cesella ogni singola nota con la perizia di un maestro impressionista, dialogando con Francies a un livello superiore di comunicazione.

© Jimmy Katz

Suoni affascinanti, ritmica cullante… Un assolo di pianoforte che riconcilia con la migliore tradizione jazzistica, denso di feeling blues, stimolo per la successiva esplosione chitarristica da cui emerge la classe, il fraseggio mai banale, la cifra stilistica di 1 fra i più grandi musicisti oggi in circolazione. Operazione perfettamente riuscita, dunque. 13:47 minuti di un’intensità e di un arcolabeno di soluzioni sonore senza eguali. Ritmi travolgenti che si alternano a cadenze eleganti e sinuose. La tensione che fa rima con l’eleganza e la dolcezza: il tutto condito da quel tocco gentile, da quella “firma” che contraddistingue Pat Metheny. Impressionante, infine, è il lavoro tastieristico di James Francies che incessamente sostiene un solista che sa attendere, anticipare, sostenere, liberare idee di una bellezza squisita.

Seguono, in Side-Eye NYC, composizioni dove il linguaggio chitarristico viene espresso con un occhio di riguardo alla tradizione: come in Timeline, con quel pulsare blueseggiante che esalta il Metheny più cool; o come in Bright Size Life, che non risente minimamente del trascorrere del tempo. In Lodger, invece, sembra di ascoltare Jimi Hendrix e la sua straordinaria Little Wing: clima simile, intenso, malinconico, ispirato, commovente. Pat suona facendo ricorso al lato più rock del proprio stile; e lo fa con una “cattiveria” e con un sound assolutamente unici. Ecco come il rock serve a innovare, a rivitalizzare un linguaggio…

«Da tempo non provavo emozioni così intense, riassaporando il gusto di suonare dal vivo con una formazione ridotta. Certo, quando suono con Antonio Sanchez con il quale collaboro da quasi 30 anni so bene di poter contare su un musicista ricettivo e stimolante. Ma avevo assoluto bisogno di sfide, di provare a suonare senza le cosiddette “cinture di sicurezza” dettate dal fare musica insieme per tanti anni. Con James e Marcus, ogni sera è come essere alla guida di un’auto da corsa senza conoscere il circuito e tantomeno le curve da affrontare. E allora bisogna fronteggiare tutto al momento, improvvisando, che è poi la quintessenza della musica che amiamo. Chissà, forse è tornato il tempo dell’improvvisazione al potere… e sono felice di viverlo con simili compagni d’avventura. Lasciamo parlare la musica, stavolta. Le parole, in questo caso, non sono nient’altro che una prigione».