Certo che ci sono i pinguini. Quelli in frac, dipinti sopra un esercito di “panettoni” stradali, non esistono più. Sostituiti da pinguini non di cemento ma in vetroresina. E pinguini, ancora, si moltiplicano negli acrilici su tela. Sono il simbolo del graffitismo di Paolo Bordino, in arte Pao, classe 1977, “writer” milanese. Il pinguino sta a Pao come il bambino radiante sta a Keith Haring. Icona l’uno, icona l’altro. Il suo MondoTondo è un “paese delle meraviglie” giocato sulla forma perfetta, il cerchio, la O che prima di lui solo Giotto. Un luogo della fantasia che a starci dentro ti fa star bene ma anche un po’ a disagio (e qui sta il bello) abitato da molto altro, fra dipinti e sculture. Vi sareste mai immaginati da Pao L’uomo invisibile (2 occhi e stop), un piccolo guru in posizione yoga, una pecora intercettata da un Ufo, una bimba su sfondo “optical” che ha appena accoltellato il suo orsacchiotto? Sorridete, gente. E meditate.
Ci sono 2 Pao, dentro il MondoTondo. Quello giocoso dei “panettoni” e quello che si diverte a sperimentare con profondità e vie di fuga.
«È nato tutto dal caso. Il primo quadro che ho realizzato per questa mostra, intitolato MondoTondo, è anche il più recente: nel senso che ho deciso all’ultimo istante di rifarlo perché volevo raccontasse e sintetizzasse quel mondo fantastico che è l’essenza del mio lavoro. Poi mi sono reso conto che stavo sempre più spesso utilizzando forme curve, morbide…».
E hai approfondito lo studio sulle prospettive inusuali che da un paio d’anni ti sta appassionando…
«Mi è stato complice un libro di studi geometrici dietro le opere di Escher. Stavo effettuando una ricerca e ho trovato spunti e similitudini con l’incisore e grafico olandese. Ho scoperto che siamo abituati a disegnare la prospettiva affidandoci alle linee rette, ma è solo una convenzione dettata dalla nostra razionalità. In realtà le linee che vediamo sono curve, soprattutto se ci spingiamo verso gli estremi».
E così, ti sei messo a osare a tal punto da sembrare “cinematografico”. In certe opere dai quasi la sensazione di utilizzare l’effetto “fish-eye”.
«Che a mio giudizio è più naturale della visione retta».
In automatico, direi, sei passato dalla gioiosità dei tuoi personaggi “classici” a una vena più introspettiva.
«C’è una dialettica fra dentro e fuori, introverso ed estroverso. Determinata, per assurdo, dal passaggio dalla strada alla galleria d’arte. Cioè: quello che funziona all’esterno, non è detto che debba necessariamente funzionare all’interno. Riflessione, tra l’altro, che ho iniziato a maturare nel 2007 in occasione della collettiva Street Art Sweet Art al PAC di Milano. Esponendo Il velo di Maya, mi sono accorto di esprimere un vissuto introspettivo che non avrebbe avuto senso se collocato all’esterno dove, al contrario, posizionavo pinguini estroversi, colorati, di maggior impatto».
Qualsiasi graffito stacchi dal muro e inchiodi alla parete di una galleria d’arte, perde significato…
«Certo. Se gli sottrai la superficie, se gli elimini il contesto per offrirgli in cambio il muro bianco, ciò che vedrai saranno solo difetti e imperfezioni. Perderà, quel dipinto, gran parte del valore che ha per strada. Gli unici artisti che hanno vinto la scommessa sono stati Jean-Michel Basquiat e Keith Haring perché erano anomali: hanno realizzato poche opere “street” e hanno iniziato subito a dipingere. Facevano pitture, non graffiti».
Tu, invece, come hai iniziato?
«Da zero. Autodidatta. Dopo aver lavorato come macchinista, fonico e tecnico di palcoscenico per la compagnia teatrale di Dario Fo e Franca Rame, nel 2000 ho visto sulla strada un paracarro di cemento sporcato di colore che assomigliava a un panettone. Istintivamente, l’ho associato a un fumettistico pinguino che avevo disegnato a Capodanno su un quaderno. Poi, di notte, in una via a fondo cieco ho tirato fuori dalle tasche 4 bombolette spray e trasformato il paracarro in un pinguino sottolineandone i tratti distintivi con un pennarello indelebile nero. Lo scopo: apparire sul Corriere della Sera nella rubrica Foto del giorno. Ci sono riuscito. Più d’una volta».
Ti hanno pizzicato?
«La prima contravvenzione, 208 Euro “per imbrattamento di panettoni stradali”, recitava il verbale, me l’hanno fatta mentre dipingevo alla luce del sole. Dopo avermi multato, il vigile mi ha fatto i complimenti».
Quella multa, se non sbaglio, l’hai contestata…
«Ricordo di aver scritto al sindaco che la mia era una decorazione non autorizzata e non un imbrattamento. Mi ha risposto per lettera Riccardo De Corato spiegandomi che il Comune di Milano spendeva fortune per ripulire i muri dai graffiti e quindi dovevo rispettare le regole».
E l’hai camuffato, il vice sindaco, in De Corato decorato.
«Nell’attesa che la giustizia penale decida il destino di Bros, gli ho ricoperto giacca e cravatta coi suoi graffiti».
Neppure Letizia Moratti è sfuggita alla tua ironia… 
«Nel 2007 era in carica da 1 anno come sindaca, più che orgogliosa della campagna I lav Milan! contro gli sgorbi sui muri (ma anche i graffiti: a prescindere). Aveva tappezzato la città di posters con facce tempestate da “tags”. Ho preso il suo, di volto, dal manifesto elettorale che la ritraeva bellissima, e l’ho mixato con quelle scritte».
Torniamo ai pinguini.
«Quando mi sono reso conto che la mia riconoscibilità stava diventando una gabbia, in via Dante li ho sostituiti con una serie di delfini. Col risultato, però, che la gente se ne usciva con un “Che bei pinguini che hai dipinto!” senza accorgersi che c’erano le pinne. Con questa mostra, invece, mi sono detto: ok, porto avanti i pinguini che sono il mio segno distintivo, ma amplifico la popolazione in Mondo con nuovi “panettoni”, tartarughe, coccodrilli, pecore Dolly, creature del bosco, personaggi come Daruma, la Matrioska, Taigor, il Generale Bau che rende omaggio a Enrico Baj…».
Ma quando le atmosfere si fanno più “dark”, s’insinuano le citazioni colte. René Magritte, ad esempio…
«Sono d’accordo. E aggiungo il surrealismo di Salvador Dalí e la Pop Art nipponica di Takashi Murakami».
In certi tuoi boschi plumbei, o nel pupazzo di neve che si protende verso un gelido sole, intravedo Tim Burton…
«Sono sollecitazioni. Conscie e inconscie. Mixaggio di generi. Arte “underground” che nasce dal basso e va dai graffiti ai fumetti, fino al Surrelismo Pop».
Quali opere ti danno più emozione?
«Quelle più “difficili”: L’estate è volata via, che è stata la prima di questa serie; i lavori concavi, che si spingono al di là della superficie piana fondendo concetto e forma».
Cosa ti distingue dagli altri graffitisti?
«Io mi sono sempre considerato un “outsider”: sia quando ho iniziato e di Street Art non si sentiva ancora parlare, sia oggi».
Toglimi una curiosità: chi ha cominciato a chiamarti Pao?
«Ero a Londra, impiegato come “cleaner” in un ospedale. Un lavoraccio. Con me c’erano parecchi immigrati fra cui una donnona africana, la classica “auntie” un po’ anzianotta, che mi aveva preso in simpatia ma non riuscendo a pronunciare Paolo lo abbreviò in Pao. Abbracciandomi forte, esclamava “Pao! I like my son!”. Quando ho iniziato a dipingere per strada, ho scelto Pao come pseudonimo. Devo ammettere che mi ha portato fortuna».

Foto: MondoTondo, 2010
Il Compleanno, 2009
De Corato decorato, 2010