L’uomo che cadde sulla Terra, 1976. Anzitutto quella parola – Terra – che porta con sé tanti, troppi significati. Polisemìa mitologica che i tempi vorrebbero ridurre a biologia, ma che presunzione e spiritualità umana impediscono e sempre impediranno di risolvere del tutto. Ecco l’uomo caduto sulla Terra. Eppure d’alieno si tratta; ma d’alieno affatto originale che ne rifugge l’etimologia e l’immaginario tradizionale. Perché non di Altro si tratta: di un’alterità spesso imponente e misteriosa che va scoperta o fuggita. E ancora meno si parlerà di luoghi lontani, ancora una volta imponenti e da scoprire. No, questa volta è l’alieno a viaggiare alla ricerca di nuove risorse per il proprio pianeta. È l’alieno a scoprire, a scoprirci. Si immergerà nella realtà terrestre tanto da venirne intrappolato. Terra, buco nero non segnalato dalla sua (sicuramente avanzatissima) cartina spaziale. Ecco che l’alieno si è trasformato in uomo. Anzi, non trasformato: caduto. Decaduto da extraterrestre a (miseramente) terrestre. Decaduto come un angelo che diventa diavolo. Ciò che dal titolo ci sembrava un racconto fantascientifico (The Man Who Fell To Earth, scritto nel 1963 dall’americano Walter Tevis) è in realtà parabola esistenziale che ripropone il tema della discesa negli inferi con la variante del non ritorno. Questo eroe, che ricalca orme dantesche, scende nei meandri dei giochi umani per rimanerne intrappolato. Solitario come ogni eroe, guarda il mondo dall’alto della sua esperienza di diversi mondi e presto dall’alto della sua sconfinata ricchezza. Eppure, non riesce a evitarne i dolori. Dopo aver conquistato il potere più grande attraverso una multinazionale, la World Enterprise, che lui stesso ha fondato e portato all’apice grazie ad alcuni brevetti che rivoluzioneranno la tecnologia umana, viene notato e presto perseguitato proprio a causa dell’immensa portata che le sue innovazioni hanno avuto sull’assetto del pianeta. Sarà, ovviamente, la C.I.A. a rubare l’umanità a questo angelo cascato col muso sulla meschinità dell’homo sapiens. Ma quando quest’ultima lo rapisce per torturarlo e liberarlo solo dopo averlo ridotto a vegetale, il male e la malattia ne hanno già infettato la coscienza. Perché dietro alla sindrome da complotto che scorge macchinazioni e segreti governativi dietro ogni episodio di cronaca (che ha attecchito per un certo periodo anche al cinema), rimane la consapevolezza che il male rimane al di qua di coloro che reggono i fili essendo essi stessi burattini. La diversità e la solitudine che ne è corollario, l’isolamento e l’alcolismo che ne sono conseguenza, avvolgono e vincono tanto l’alieno quanto i pochi compagni che trova sulla Terra.

Questa parabola fantascientifica viene raccontata all’insegna dell’anti-Hollywood, in completa e orgogliosa rottura con tutti gli schemi e precetti costitutivi del cinema d’oltreoceano. Storie interrotte e mal raccontate, brusche interruzioni e apogeo del superfluo, discorsi aperti e non finiti nonché apparentemente estranei al racconto. Lentamente, però, quello che sembrava un caotico scorrere di immagini si rivela un (forse troppo pretenzioso) affresco di immagini e musica che insegue idee ed emozioni piuttosto che storie. Di Hollywood rimane soltanto l’accento e la centralità dello “star system”, il divismo qui incarnato nella stratificata ed ineffabile figura del protagonista Thomas Jerome Newton, magistralmente interpretato dal divissimo David Bowie. Su di lui si concentrano le attenzioni della macchina da presa giostrata dal britannico Nicolas Roeg (1928-2018), all’inseguimento di una chiave di lettura delle profondità dell’anima. Quello che troviamo al termine del percorso, è il mostro che si nasconde sotto la pelle di Newton costituendone in realtà la vera essenza. Eppure, quella mostruosità nulla può al confronto del demone invisibile umano. Demone meglio nascosto, ma più spaventoso e potente. Giunti alla fine del film, si ha come la sensazione di rimanere a mani vuote, o con un pugno di mosche. Racconto inconcludente, L’uomo che cadde sulla Terra ci racconta della futilità e labilità umana, capace di vincere anche intelligenze superiori e sguardi che giungono dall’alto. Intriso di un fascino inspiegabile, pretenzioso, a tratti fastidioso, una volta terminato lo si considera già “cult”.