Voglio ricordare Lou Reed, scomparso il 27 ottobre 2013, con questa mia intervista che ancora oggi è fonte di grandissima emozione. Rest in Peace, Lou.
6 febbraio 1996, Hotel Four Seasons, Milano. Una quarantina di minuti a colloquio con Lou Reed. Il “prima” te lo elabori nel cervello come un castello in aria. Aria mefitica: dai per scontato, seguendo una leggenda pressochè impossibile da scalfire, che Lou sia intrattabile e che possa mollarti lì e andarsene alla prima domanda ritenuta inutile o non pertinente. Balle. Il newyorkese è una pasta d’uomo. Sarà la saggezza dei suoi 53 anni, sarà che il maledettismo prima o poi un po’ s’attenua… Siamo seduti uno di fronte all’altro. Mentre risponde ai miei quesiti, il “remake” di Blue In The Face è perfetto: stesso gesticolare delle nodose mani; il medesimo, pacato inanellare delle parole; lo stesso guardarti dritto negli occhi, come nella cinepresa. Idealmente, la saletta dell’hotel si trasforma nella tabaccheria/campiello brooklynese del film di Wayne Wang e Paul Auster.
Cos’ha il tuo nuovo album Set The Twilight Reeling rispetto a New York e a Magic And Loss?
«Ciò che mi sono sforzato di fare con New York è stato descrivere la metropoli e il suo influsso emotivo sulla gente. New York è talmente vasta e forte da influenzare il tuo camminare, attraversare la strada, viaggiare nella subway. Le cose, a New York, impari a guardarle seguendo prospettive che sono sconosciute a qualunque altra città. Magic And Loss, invece, dialogava di quella particolare magia che solo l’amicizia sa darti. Magia contrapposta alla perdita; alla morte di una persona che ti è cara. Con Set The Twilight Reeling torno al tema newyorkese in maniera vitale e appassionata: il che significa godere la città, sentirsi parte integrante dei suoi ritmi vitali, gustare quelle relazioni interpersonali che quotidianamente ti offre. L’ho identificata come un crepuscolo che esplode, come quando colpisci qualcuno con un pugno e quello barcolla, senza più difese».
Nel brano Sex With Your Parents attacchi con violenza la destra repubblicana. Come vorresti l’America di domani?
«Attenzione. La mia non è una violenza gratuita ma semmai ironica sull’odierno sistema politico. Come vorrei fosse l’America? Mi piacerebbe che si occupasse dei ceti medio-bassi e la smettesse di accumulare ricchezza sfruttando la mano d’opera a costi irrisori e a salari ridicoli. Chi ha nelle mani il potere, dovrebbe avere il coraggio di affrontare una volta per tutte questi problemi».
Alla fine di New York Cityman canti: “I love New York”. È ancora così importante per te?
«È eccitante. Nel bene e nel male. Ogni giorno ho la percezione che New York riesca a contenere in sé tutte le cose buone e cattive del mondo».
Se ti dicessi che New York Cityman è una versione riveduta e corretta di Walk On The Wild Side?
«Credo sia vero, in un certo senso. L’abito dei 2 pezzi è simile: il suono è fresco, mi verrebbe da dire “sophisticated”. È l’inevitabile risultato dello stesso tema: New York».
Nell’introduzione del tuo libro Between Thought And Expression hai scritto che il cuore di un testo deve essere sempre ancorato a un’esperienza autentica. È stato così anche per Set The Twilight Reeling?
«Lo sai? Utilizzi le mie parole per tendermi una trappola… Ma è vero: le mie esperienze sono sempre state la radice del mio modo di scrivere e di comporre canzoni. Esperienze che sono emozioni scaturite dal cuore e proprio per questo vere, comprensibili, autentiche. Emozioni personali, ma anche emozioni di chi mi sta accanto».
Com’è nata la tua partecipazione a Blue In The Face?
«Dall’amicizia col romanziere Paul Auster. Terminate le riprese di Smoke, mi ha proposto di intervenire nel film all’insegna della totale improvvisazione. Dovevo solo starmene dietro al bancone della tabaccheria di Brooklyn sostituendomi ad Harvey Keitel e rispondere in libertà alle domande di Paul».
Qualche anno fa hai intervistato il Presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel e lo scrittore Hubert Selby. Oggi chi vorresti incontrare? 
«Ancora Havel. Per comprendere il post Cecoslovacchia, sondare i suoi stati d’animo, le sue mosse politiche, i cambiamenti vissuti nella sfera privata e come leader di un paese dell’Est europeo. Esordiremmo con un semplice “come va?” e ci sentiremmo a nostro agio, da amici che si ritrovano a discorrere della vita».
C’è qualcosa nella tua, di vita, che hai voluto cancellare?
«No. Tutto quello che è successo nel mio passato non è stato altro che una tappa d’avvicinamento verso ciò che sono oggi: un uomo e un artista che sta bene e che ha trovato un suo buon equilibrio interiore».
Prova a descriverti come musicista…
«Mi piace considerarmi un musicista e un narratore che si sforza di combinare nel miglior modo possibile le 2 cose. Oggi, devo dire, mi sto scoprendo innamorato del suono puro. Più ancora che del semplice suonare e scrivere canzoni. Ammiro la tecnica di registrazione intesa come design dei mezzi tecnologici impiegati per incidere un disco, uniti alle loro specifiche funzionalità. In sintesi: la causa e l’effetto. Ad esempio il microfono, che è alla base della riuscita di ogni incisione: voglio che sia ben costruito e ricettivo nei confronti del suono. Conseguenza di tutto ciò è l’aver scoperto la fondamentale importanza della produzione di un disco, che non deve limitarsi al brano eseguito con la chitarra e cantato più o meno bene. Set The Twilight Reeling mi dà piacere, ogni volta che lo ascolto. Significa aver vinto la scommessa».
I Velvet Underground sono entrati a far parte della Rock and Roll Hall of Fame. Non credi che il loro valore sia stato tardivamente riconosciuto?
«Meglio tardi che mai. Mi spiace che il riconoscimento coinvolga me, John Cale, Moe Tucker e non Sterling Morrison che purtroppo non può gioire insieme a noi. Allo stesso tempo mi fa piacere che si siano accorti dei Velvet adesso e non fra qualche anno, quando saremo lassù in Paradiso con Sterling».
Qual è il tuo ricordo più bello di lui e di Andy Warhol?
«Sterling era un ragazzo dolcissimo intrappolato dentro un fisico imponente, che metteva soggezione. Perciò, quando dovevamo farci rispettare mandavamo avanti lui, per primo. Di Andy mi piace ricordare quando un giorno vide in un programma televisivo un distributore di bubblegums colorate. Ne volle uno simile, da collocare in scena durante un nostro concerto. Glielo procurammo ma successe l’imprevisto: all’interno del bus faceva talmente caldo che le gomme da masticare si sciolsero all’istante. Scoppiammo tutti a ridere. Warhol, invece, si infuriò come non mai».
Il suono della tua chitarra è inconfondibile. C’è un segreto?
«Ci ho lavorato a lungo, sforzandomi di migliorarlo. Direi che da New York in poi la chitarra mi sta dando parecchie soddisfazioni. Il segreto, lo ribadisco, sta tutto nella purezza della tecnica d’incisione».
Come vuoi che siano, i tuoi concerti?
«Ridotti all’osso, senza particolari luci. Più simili agli spettacoli di New York, che a quelli di Magic And Loss che coinvolgevano la suggestiva e persuasiva capacità della parola».
«È stato un piacevole incontro», mi dice Lou stringendomi forte la mano. Ne sei proprio convinto?, gli chiedo. «Sure. You’re an intelligent guy». Sì, è andata nel migliore dei modi.