La censura che stabilisce come parlare (o non parlare) che sta soffocando la libertà espressiva negli Stati Uniti (in base a una non ben chiara tutela delle minoranze) rischia di avere qualche effetto anche qui in Italia. La censura nominalistica ha ormai cestinato i termini normali che identificavano le situazioni quando non erano ritenute positive. Dire handicappato può essere grave ma dipende da come lo si dice – se come situazione o come offesa – così come dire cieco o dire negro. Qualcuno ha stabilito che ad esempio non si può più pronunciare spazzino, bensì operatore ecologico. Sinceramente non so quanti spazzini si siano vergognati di essere definiti come tali.

In Italia la parola negro non è mai stata offensiva, ma solo di definizione. Fra l’altro, l’ostracismo nei suoi confronti è la prova che il “politicamente corretto” altro non è se non una stupida importazione esterofila: negro ha assonanza con l’americano “nigger“, che ha sì una connotazione negativa. È ovvio che tale cambiamento verbale sarebbe stato vantaggioso se avesse portato con sé il miglioramento degli handicap, della cecità o della condizione delle persone “di colore“, ma così non è stato. Si è trattato solo di un maquillage nominalistico, che potremmo trascurare se non fosse che, guardandoci indietro, non so quanti testi di canzoni sarebbero apparsi accettabili.

Sul web questo è un argomento che qualcuno ha cominciato a porsi. E al riguardo, i miei 2 articoli precedenti hanno esplorato solo la punta dell’iceberg nell’ambito della discografia americana, ma il mio intento è stato soprattutto svelare l’intrinseca ipocrisia della “correttezza politica” che censura da una parte e lascia correre dall’altra. Poiché si parlava di America, è stato naturale (pur se illogico) che questo veleno liberticida penetrasse anche qui da noi. Ma per ora non ha preso piede, e ci auguriamo non lo debba mai prendere, nelle scuole e nelle università. Alcune modifiche, semmai, sono state apportate ai testi di brani di qualche decennio fa. Ed è inutile dire che quando sono diventati dei successi nessuno si è sentito offeso.

In base ai miei ricordi, vi propongo alcuni esempi partendo da un successo epocale del 1963 come I Watussi di Edoardo Vianello. Il testo è esplicitamente comico – non razzista – quando parla di “altissimi negri” che guardano “le giraffe negli occhi“, dove “quello più basso è altro due metri“. Ma ultimamente, quando viene riproposto, i “negri” diventano “neri“.

Quando Fausto Leali intona Angeli negri (1968), il vocabolo viene ripetuto non so quante volte. È vero che stigmatizza il pittore che sta dipingendo un altare, al quale si chiede di dipingere un angelo negro e di non disprezzare il suo colore. Implicitamente, potremmo scorgere nella canzone una sorta di (inesistente) conflitto razziale, ma oggi quella parola verrebbe considerata dispregiativa e censurabile. A posteriori trovo abbastanza sconvolgente – ma sempre a dimostrazione dei vantaggi di un’epoca in cui si scriveva e si cantava ciò che si voleva, purchè (e lì la censura c’era eccome) non si parlasse esplicitamente di sesso – il silenzio femminista nei riguardi di La bambola di Patty Pravo (1970). Oggi, il ritornello “Tu mi fai girar tu mi fai girar come fossi una bambola, poi mi butti giù, poi mi butti giù come fossi una bambola” accenderebbe dibattiti e polemiche: forse per creare ad arte un conflitto che non c’è: poiché nulla giustifica la “correttezza politica”. Infatti, quando il concetto non esisteva ancora La bambola raggiunse senza problemi il 1° posto della Hit Parade.

Una timida ribellione femminista, limitata a un commento sul settimanale Ciao 2001, la suscitò Sereno è di Drupi (1974). Forse perché a cantarla era un uomo? I versi incriminati erano proprio nell’incipit: “Sereno è rimanere a letto ancora un po’ e sentirti giù in cucina che già prepari il mio caffè. Ma la protesta è rimasta quasi senza seguito. E Bella senz’anima di Riccardo Cocciante (1974), passata pressochè inosservata a qualsiasi genere di occhiuto osservatorio politico, o pseudo tale? Rende espliciti gli stereotipi più triti e ritriti sulla femme fatale, riscattandosi esclusivamente per la musica e la grande interpretazione del cantautore.

Nel 1979, Adriano Pappalardo sbanca le classifiche con Ricominciamo. A voler essere maliziosi, certi versi sembrano alludere a qualche forma di stalking, quando canta “So dove passi le notti… Ti seguo, ti curo, non mollo, lo giuro“. Non so se un testo del genere oggi la passerebbe liscia; ma all’epoca, con un femminismo ancora battagliero, la canzone non sortì alcun effetto. Si era più liberi, o le femministe si erano distratte?

La prova provata di un abisso fra ieri e oggi è Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi (1980), che riesce a mettere insieme una battuta razzista e contemporaneamente sessista: “È andata a casa con il negro, la troia!. Qualcuno s’immagina qualcosa del genere al Festival di Sanremo? No, perché oggi appare trasgressivo un Achille Lauro che sta invece nel mainstream di una sessualità fluida che va tanto di moda.

È giusto che certi testi non vengano cantati in quanto sciovinisti, razzisti, sessisti? Sì e no. Un conto sono certi princìpi e certi valori che possono essere comuni a tutti, un conto sono le idee. Essere razzisti non è bello di certo, come non lo è essere sessisti. Ma se si vive in uno stato di libertà, se si pretende che ognuno sia libero di vivere come gli pare, dev’essere consentito anche a chi non è “politicamente corretto” di pensare come gli pare, purchè non danneggi nessuno.

Ecco perché gli odierni scandali sono presunti tali. Perché certe esibizioni, certe “cosiddettetrasgressioni  (impensabili 20 anni fa) sembrano tali anche oggi, ma non lo sono. Testi di canzoni che circolavano tranquillamente decenni fa, oggi finirebbero invece sotto le sforbiciate censorie del “politically correct“.