È sempre stato quasi un luogo comune, parlando di rock tedesco, accomunare gli Amon Düül 2 e i Can. In effetti analogie ce ne sono: innanzi tutto l’amicizia che ha legato i 2 gruppi e la stessa volontà “alternativa”; ma tutto sommato ci limitiamo a queste, poiché forse sono maggiori le diversità. Intanto la prima lineup del gruppo ha componenti dalle basi piuttosto frastagliate: il cantante, Malcolm Money, è un nero americano; il bassista, Holger Czukay, ha trascorsi con l’avanguardia stockhauseniana ed è stato fra i primi a fare musica etnica poiché un suo disco del 1968, Cannaxis 5, mescolava musica vietnamita ed elettronica; il tastierista, Irmin Schmidt, ha dietro di sé studi al Conservatorio e successivamente corsi con Karlheinz Stockhausen; il chitarrista, Michael Karoli, aveva intrapreso fin da bambino lezioni private di chitarra e violino. Infine il batterista, Jaki Liebezeit, aveva militato nel più importante gruppo di free jazz tedesco, il Manfred Schoof Quintet. In definitiva un gruppo quasi completamente professionale e di notevole cultura musicale dove almeno 3 componenti su 5 avrebbero potuto svolgere una carriera al di fuori del rock. Proprio per questo motivo la loro musica risultò un amalgama innovativo e soprattutto difficilmente definibile.

Il primo Lp, Monster Movie, uscì nel 1969 caratterizzandosi per i suoi ritmi stralunati e un canto recitato e dissonante; tuttavia i brani sono abbastanza fruibili anche se non commerciali. Solo 1 di essi – Outside My Door – sortisce un impatto violento, quasi hard. Father Cannot Yell mette in evidenza un basso ossessivo e dissonanze organistiche, mentre la lunga Yo Doo Rright, con il canto recitativo e sgraziato di Malcolm Money, sembra un incrocio demenziale tra blues, avanguardia e un raga indiano. Anche per i Can vale ciò che è stato detto per gli Amon Düül 2: i pezzi sembrano nascere finalizzati a una loro performance dal vivo; quasi alla ricerca di una dimensione “situazionista”; in sintonia, d’altronde, con l’essere musicisti di grande cultura e adepti dell’avanguardia.

Dopo l’uscita del primo disco, Money se ne va sostituito dal giapponese Damo Suzuki. Leggenda narra che quest’ultimo sia stato reclutato dopo averlo visto in metropolitana, a Berlino, suonare una chitarra con una corda sola. I brani del 2° Lp, come suggerisce il titolo Can Soundtracks, nascono per il cinema e forse per questo appaiono più fruibili e descrittivi: sia quando ci sono situazioni drammatiche come in Deadlock, sia quando prevale una dimensione musicale più intimista (She Brings The Rain). C’è da dire però che la composizione migliore è Mother Sky, sostenuta da una ritmica incalzante con un assolo molto “psichedelico” di Karoli; e che Soul Desert è rovinato dal canto disperato (e disperante…) di Suzuki. Si è già detto e si continuerà a ripeterlo: il canto è il punto debole della scena tedesca.

Nel 1971 esce il doppio album Tago Mago, da molti ritenuto il loro capolavoro e dimostrazione lampante di come non siano trascorsi quasi 50 anni ma in realtà più di 1 secolo, sotto ogni punto di vista. Oggi un disco del genere non troverebbe spazio sulle riviste specializzate, non avrebbe alcun seguito giovanile, non susciterebbe interesse discografico: l’inquietantissimo Augmn è avanguardia, Paperhouse sembra un tributo salmodiante ma ritmatissimo ai Velvet Underground, mentre Halleluwah fonde insieme sperimentazione e funky. Scrisse bene Maurizio Baiata nel 1° articolo dedicato ai Can sul settimanale Ciao 2001, agosto 1973, che la base erano i “selvaggi impasti ritmici” di Jaki Liebezeit. Questi non era Keith Moon, però sui suoi ossessivi ritmi circolari si impostava ogni brano; e alla ritmica sembravano adeguarsi pure strumenti solistici come chitarra e organo. Dunque non solo un disco del genere viene pubblicato, ma ottiene un seguito nel 1972, Ege Bamyasi, nonché buona stampa in Francia e in Inghilterra. La copertina è un palese tributo alla Campbell’s Soup Can di Andy Warhol, quasi a significare la comune appartenenza a un medesimo sentire; e i pezzi spaziano dall’avanguardistico Soup, al drammatico Vitamin C con la ritmica in primissimo piano, fino alla gradevolissima e quasi commerciale One More Night.

Tra il 1972 e il 1973 la band fu molto presente in Inghilterra con una serie di tournée che vedevano un pubblico non numeroso ma assai competente; e recensioni quasi sempre favorevoli, soprattutto per la forza ritmica che scaturiva dalle loro lunghe improvvisazioni che fondevano in maniera del tutto originale rock, jazz e avanguardia. Forse è proprio da qui che nascerà Bel Air, suite che occuperà la side B del loro album successivo, Future Days del 1973, con 3 composizioni (di cui 2 piuttosto lunghe e 1 di normale durata a occupare la prima facciata) dove la chitarra di Karoli esprime sonorità decisamente più californiane che in passato; e i ritmi sono spesso ipnotici ma sempre gradevoli. Se Moonshake è il pezzo più commerciale (per modo di dire) alla stregua di One More Night del disco precedente, tanto da essere pubblicato anche a 45 giri, Spray (forse il brano più importante del disco) ha la curiosa, rara se non unica caratteristica di non vedere il ritmo supportare la melodia, bensì la melodia fondersi col ritmo. E proprio per questo motivo merita di essere ascoltato. Dopo l’uscita dell’Lp, folgorato sulla via dei Testimoni di Geova Damo Suzuki lasciò il gruppo. Al di là delle motivazioni spirituali, c’è anche da dire che il suo contributo a Future Days è trascurabile.

L’ultima incisione dei Can “tradizionali” credo sia Soon Over Babaluma (1974), disco alquanto sconcertante che forse tenta, implicitamente, una fusione di tutte le tendenze del rock tedesco (in particolare Kraftwerk e Neu) con una sotterranea vena funky. La mini suite Chain Reaction non stonerebbe in un album dei Neu, Quantum Phisics è pura avanguardia ma il ritmo dondolante di Dizzy Dizzy è un funky stralunatissimo.

Pur vedendo ancora all’opera la classica formazione, Landed (1975) sembra acquisire in Hunters And Collectors toni romantici e quasi da Progressive, mentre l’ottimo Vernal Equinox tradisce quella che era l’originalità dei Can, cioè l’impasto di tutti gli strumenti impegnati a creare un ritmico muro del suono. Qui, al contrario, il ritmo ossessivo fa da base a un lungo assolo di chitarra. Grande brano, ma non più nella tradizione del gruppo che comunque fra il 1974 e il 1976 fa uscire 2 Lp di pezzi inediti registrati negli anni precedenti, Limited Edition e Unlimited Edition, dove permane la vocazione sperimentale e l’amore per la world music di Holger Czukay che gioca un ruolo prevalente nelle brevi composizioni precedute dalla sigla EFS.

Il passaggio alla Virgin Records (che si trasforma da etichetta alternativa a major) avvenuto con il disco precedente, segna in Flow Motion del 1976 anche il passaggio definitivo all’essere una band come tutte le altre. Complice la potenza ritmica, i Can si inseriscono nel trend della disco music: anziché la fusione di melodia e ritmo (cifra della loro originalità) ad essere normale è la ritmica sottostante, quasi reggae, sui cui giostrano gli strumenti solisti e la voce spesso affidata a Peter Gilmour. Ne è un chiaro esempio I Want More, sostanzialmente “disco”.

Questi Lp e i 2 successivi, Saw Delight e Out Of Reach, non aggiungono granchè alla loro carriera; e forse l’ultimo è dei Can solo nominalmente. L’ingresso in formazione di Rosko Gee e Kwaku Baah, ex Traffic, e il disimpegno progressivo di Holger Czukay, indirizzano il gruppo verso suoni afro-jazzati: talvolta apprezzabili, altre meno. Seguirà una raccolta, un album di studio e il gruppo si scioglierà nell’anonimato. Ad oggi, gli unici rimasti vivi sono il tastierista Irmin Schmidt e l’ex cantante Damo Suzuki.

Foto: il bassista Holger Czukay