«Erano 11 anni che gironzolavo cercando di capire che cosa fare e incontrai Antony Genn, un giovanotto che conoscevo già perché lo avevo visto al lavoro in qualche altra session. Mi disse “Tu sei Joe Strummer. Dovresti fare un disco»

Comincia così, nel 1999, l’ultimo, breve capitolo della vita e della carriera di Joe Strummer, ex frontman dei Clash, oggi riproposto all’attenzione del pubblico da 002: The Mescaleros Years, un cofanetto di 4 Cd o 7 Lp che riproduce i 3 album di studio della band in versione rimasterizzata affiancandoli a una raccolta di inediti e rarità e a un libro zeppo di foto, schizzi, bozzetti e testi di canzoni scritti a mano da Joe, amorevolmente confezionato da David Zonshine della Dark Horse (l’etichetta del figlio di George Harrison, Dhani) con la collaborazione della vedova di Strummer, Lucinda Tait.

Sono dischi diversi, ognuno con un suo carattere e una sua personalità; e dimostrano che Strummer, confuso, poco lucido e tentennante 10 anni prima all’epoca del debutto solista con Earthquake Weather, dava il meglio di sé quando si sentiva circondato da un gruppo di amici; e soprattutto quando aveva di fronte una controparte artistica in cui riflettersi e con cui confrontarsi («Avevo bisogno di un melodista, come nel caso di Rodgers e Hart, o di Lieber e Stoller. Io sono un paroliere», spiegò nel 1999 alla rivista CD Now). Segnavano il suo riscatto umano e artistico, un riposizionamento sul mercato (termine di marketing che a lui avrebbe fatto probabilmente orrore) e anche un ritorno all’eccitazione dei concerti e della musica dal vivo, dopo che Genn lo aveva spronato a rimettersi al collo quella vecchia e malconcia Telecaster nera che ci invitava a ignorare ogni ordine proveniente dall’esterno.

Joe Strummer

Seguono i cosiddetti wilderness years già documentati 4 anni fa da un altro box, 001, che tra fine anni 80 e 90 lo videro un po’ disorientato, disperso, lontano dal fronte e dai riflettori. Prima dell’arrivo salvifico dei Mescaleros, una cricca di musicisti molto più giovani di lui cui diede il nome di una delle più battagliere tribù Apache e che diventarono la sua nuova famiglia musicale. Una di quelle famiglie che piacevano a lui: disfunzionali, sconclusionate, un po’ matte, un po’ disorganizzate e anche rissose, ma sempre ricompattate da un forte legame di sangue e di intenti. I nuovi compagni riconoscevano in Strummer il capo banda e lo stregone, una guida spirituale, un grande motivatore che trasmetteva una carica e un entusiasmo travolgenti, ben percepibili all’ascolto di 3 dischi imperfetti ma pieni di vita.

Rock Art And The X-Ray Style, Global A Go-Go e il postumo Streetcore sono lo specchio di un uomo che viveva in moto perpetuo come se sapesse di avere poco tempo a disposizione; il ritratto di un’anima inquieta ma inguaribilmente ottimista, ancora convinta che il futuro fosse tutto da scrivere. Che in Burnin’ Streets (registrata nel 2002) cantava ancora di una Londra in fiamme, ma che della capitale britannica sapeva cogliere ed esprimere anche il lato più gentile, cosmopolita e inclusivo: percorrendo regolarmente a piedi il miglio abbondante che separa Willesden (sede dei Battery Studios in cui incise Rock Art) da Cricklewood, quartieri della periferia nordoccidentale, per incontrare il dealer che gli procurava la cannabis preferita, trovò l’ispirazione per una delicata e poetica sinfonia urbana che chiudeva mirabilmente il disco e in cui osservava che da quelle parti la metropoli aveva ancora un bell’aspetto, piena di gente per strada con cui era bello fermarsi a parlare, bere una lager, una stout o dell’assenzio e per una volta almeno infrangere le regole” com’era sempre piaciuto a un romantico cresciuto nel mito del fuorilegge come lui. 2 anni dopo, nel frenetico e irresistibile etno folk di Bhindi Bhagee (2001) celebrava lo spirito di accoglienza dei quartieri umili e multietnici della città, seguendo uno “straniero” neozelandese a zonzo tra i banchetti del mercato rionale avvolti dai profumi di hummus, couscous, pastrami e lasagne.

I vagabondaggi planetari e la vita quotidiana in città avevano reso sempre più glocal la sua musica e la sua visione del mondo. Liberato dalle pastoie burocratiche di un vecchio contratto con la Sony e ottenuto un sostanzioso anticipo dalla indie californiana Hellcat Records (fondata da Tim Armstrong, chitarrista dei Rancid), Strummer tornava a respirare; e in Rock Art And The X-Ray Style sembrava rigenerato anche se ancora in cerca, a tentoni, di una nuova strada: cedeva al vulcanico Genn, polistrumentista ex componente dei Pulp e degli Elastica, la direzione artistica e la produzione del progetto (a fianco di Richard Norris del duo electro-dance The Grid), inglobando accanto ai vecchi amori, il reggae e il rock and roll, i beat, i loop e i sample elettronici che facevano ballare (e sballare) la nuova generazione. I bassi profondi e i ritmi in levare che gli erano familiari fin dai tempi dei Clash gli servivano, in Tony Adams, per dire la sua sulle insidie della popolarità scegliendo a simbolo una bandiera dell’amato Arsenal e della Nazionale di calcio inglese, cui venne negata la fascia di capitano quando affiorarono pubblicamente i dettagli della sua lunga e sofferta battaglia con l’alcolismo.

L’altro singolo del disco, Yalla Yalla, prendeva invece una direzione diversa e più inattesa, dipanandosi come un mantra ipnotico e di sapore mediorientale scandito da pulsazioni electro. Nel folk rock di X-Ray Style, Joe restava aggrappato allo stile del suo effimero gruppo precedente, i Latino Rockabilly War; con Nitcomb e Forbidden City, dimostrava di avere ancora in tasca ganci accattivanti e melodie commoventi. Intanto però scriveva una canzone destinata a Johnny Cash (The Road to Rock’n’Roll, che il Man in Black rifiutò sostenendo di non averla capita) e si faceva tentare dai ritmi della cumbia colombiana (Sandpaper Blues, in cui a suonare la chitarra acustica era Dave Stewart degli Eurythmics), mentre l’impeto e i ritmi da dancefloor di Techno D-Day manifestavano la nuova passione per i rave party e per i suoni che arrivavano da Madchester (complici le droghe sintetiche e la stretta amicizia con i Black Grape di Shaun Ryder).

Era solo un primo passo, perché 2 anni dopo Global a Go-Go avrebbe radicalizzato l’approccio e cambiato le carte in tavola. Costretto a fare a meno di Genn, vittima di una tossicodipendenza da eroina da cui riuscì poi fortunatamente a liberarsi, Strummer si trovò di fronte a vecchi fantasmi, rivivendo una situazione simile a quella sperimentata nel 1982 quando per gli stessi motivi aveva licenziato in tronco Topper Headon dai Clash. Il chitarrista Scott Shields, il percussionista Pablo Cook e il tastierista Martin Slattery, tutti polistrumentisti, restavano il cuore pulsante dei Mescaleros rinforzati da una nuova sezione ritmica e dall’innesto di Tymon Dogg, il violinista con cui Joe aveva fatto il busker prima di entrare nei Clash e che aveva invitato a cantare e suonare in un pezzo di Sandinista! Il vecchio compare con il dna del musicista di strada aggiungeva un elemento di imprevedibilità e di ulteriore anarchia all’ensemble, rimescolando un’alchimìa funzionante ma volatile.

Ne venne fuori il disco più spontaneo, caotico e lungo (oltre 73 minuti) della trilogia: quello che meglio di tutti, a partire dalla title track con la voce dell’amico Roger Daltrey (The Who) nascosta fra i cori, rifletteva la personalità di Strummer e la versatilità delle playlist dei suoi programmi radio per BBC World Service: un viaggio a zig zag per il pianeta in cui si mischiavano voci, lingue, interferenze, elettronica e decine di strumenti analogici di ogni genere, con una nuvola di ganja perennemente sopra la testa e una forte propensione all’improvvisazione e alle jam session (la rielaborazione strumentale e a ritmo di marcia del traditional irlandese Minstrel Boy dura quasi 18 minuti e sembra proiettare il disco verso l’infinito).

Joe Strummer and The Mescaleros

Global A Go-Go è un pendolo impazzito che oscilla tra ballate acustiche e folk’n’roll (ispirata alla figura storica del proto ambientalista che le dà il titolo, Johnny Appleseed celebra i valori e le conquiste civili dell’America progressista e antagonista), la rockotronica danzabile di Cool’N’Out e le scansioni caraibiche di At The Border, Guy, mentre il ritmo lento e ipnotico di Gamma Ray ti imbambola come un joint, la zingaresca Mondo Bongo già dal titolo si avvicina alla sensibilità terzomondista di Manu Chao e l’esotica Shaktar Donetsk racconta la storia di immigrati macedoni e ucraini che entrano clandestinamente in Gran Bretagna nascosti nel retro di un camion.

Entrerà in classifica riportando il nome di Strummer sulla bocca di tutti, ma a quel punto Joe è già pronto per un nuovo cambio di rotta e a correggere il tiro con un sound più organico, più rock e più quadrato che punta in parte al back to the roots. Stroncato a 50 anni, il 22 dicembre del 2002, da un infarto provocato da una malattia cardiaca congenita, non farà in tempo a godersi i grandi apprezzamenti riservati a Streetcore, l’album del 2003 che Slattery e Shields prenderanno in mano per completarlo in sua assenza, cucendo intorno al suo carismatico eloquio da dj radiofonico una jam notturna e strumentale; e irrobustendo gli intrecci sonori del resto del repertorio: il messianico reggae rock di Get Down Moses e 2 inni da concerto come Arms Aloft e l’accattivante singolo Coma Girl (un omaggio, pare, alla figlia Lola che lo accompagnava nelle sue regolari visite al Festival di Glastonbury), talmente mainstream da essere ripresi in concerto rispettivamente dai Pearl Jam e da Bruce Springsteen (proprio a Glastonbury, nel 2009, in acustico e come esplicito omaggio), mentre Ramshackle Day Parade, un po’ Beatles, un po’ raga indiano e un po’ coro da stadio, diventava dopo la tragedia dell’11 settembre del 2001 un potente inno pacifista.

Le sorprese maggiori arrivavano dai pezzi acustici e folkeggianti: Silver And Gold, che trasformava l’r&b Before I Grow Too Old di Fats Domino, Bobby Charles e Dave Bartholomew in una ballata western con l’armonica e una Long Shadow di nuovo concepita su misura per il vocione di Johnny Cash e che Rick Rubin in persona rivestiva di un arrangiamento minimale in linea con le mitiche American Recordings da lui prodotte per l’uomo di Ring Of Fire. Canteranno finalmente insieme, Joe e Johnny, una cover di Redemption Song di Bob Marley, inclusa in Streetcore in una versione solista passata giustamente alla storia come il testamento più sincero e commovente di Strummer: mai così a nudo davanti al microfono, in perfetta sintonia con il messaggio universale di emancipazione contenuto nella canzone, la voce graffiata in primo piano accompagnata solo da una chitarra acustica e qualche quasi impercettibile nota di harmonium (Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty) e di piano (lo stesso Rubin).

Potrebbe finire così, 002, che invece aggiunge al programma Vibes Compass, compilation di 15 pezzi inediti che includono demo, outtakes e brani mai pubblicati prima come la confusa Time And The Tide; il midtempo Ocean Of Dreams con le note in staccato di piano e la chitarra di Steve Jones, ex Sex Pistols; un remake di Secret Agent Man, la hit di Johnny Rivers (registrata, pare, per un film con Vin Diesel o per un sequel di Austin Powers) e una Fantastic che è in realtà una Ramshackle Day Parade in progress”. Briciole di quello sterminato e disordinato lascito di nastri conservati nel capanno da lavoro che Strummer si era costruito nella sua fattoria nel Somerset insieme ad appunti, diari, disegni e note scarabocchiate ovunque. Non aggiungono grande plusvalore musicale alla storia dei Mescaleros, ma sono utili a comprendere la natura, lo spirito e il metodo di lavoro di un artista che qui si ascolta conversare con i compagni di band e con i fonici.

Un creativo infaticabile e un accumulatore seriale che, come dice oggi la moglie Lucinda, «come uno scoiattolo teneva tutto», spargendo i segni tangibili della sua esistenza «in una serie di sacchetti di plastica». Credeva ancora che la gente potesse cambiare il mondo, che solo insieme avessimo un senso, e per questo ci manca più che mai. Chissà cosa gli sarebbe uscito ancora fuori dalla testa, dalla voce e dalla Telecaster, vivendo e osservando questi ultimi, spesso sciagurati, 20 anni.