«Miles, devi tornare a suonare, non puoi rinchiuderti in casa… Hai ancora tanto da dire, il tuo suono è solo tuo e tutti vogliono riascoltarlo. Ormai sei pronto».
«Ok. Ho trovato i musicisti giusti. Ti chiamo fra qualche giorno, Al. Tieniti pronto».
Questo dialogo, avvenuto nella cucina dell’appartamento di Miles Davis affacciato sul Central Park di New York, lo ha reso noto il batterista Al Foster: colui che con Gil Evans sarà il responsabile del grande ritorno di Miles sulle scene dopo quasi 7 anni d’isolamento, che però consentì al trombettista di restare comunque in contatto con l’ambiente musicale e di tenersi aggiornato sulle ultime tendenze che si stavano avvicendando. Andava ad assistere a tutti i concerti, telefonava ai vari musicisti, acquistava dischi di tutti i generi musicali – dai DeBarge a Cyndi Lauper, da Tom Waits ai Toto, da Michael Jackson ai Run DMC – s’intratteneva ore nel loft di Gil Evans ad ascoltare i nuovi artisti e a discutere insieme delle loro qualità.
Poi, un giorno, decide che è l’ora del grande ritorno e li convoca nel suo appartamento, dove ha già provveduto a sistemare strumenti, microfoni, amplificazione, tecnici, consolle di registrazione. I musicisti sono i migliori “giovani leoni” sulla scena: Marcus Miller al basso, Mino Cinelu alle percussioni, Bill Evans ai sassofoni e il fidato amico di sempre: l’alter ego Aloysius Foster, detto Al, il batterista che negli ultimi 20 anni ha mantenuto il trono dietro alla batteria delle varie formazioni davisiane. Il box di 3 Cd intitolato The Bootleg Series Vol. 7 – That’s What Happened 1982-1985 (Columbia/Legacy) è la preziosa testimonianza di tutto ciò.
Le prime prove mettono subito in evidenza la personalità di Miller, straripante al basso e spina dorsale di quel sound che pian piano Davis sta rimodellando. Il funk è senza dubbio l’elemento fondamentale, il backbeat su cui innestare i vari interventi solisti; ma anche un recupero di quella melodia e di quella delicatezza spesso associate a quel suono, unico e inimitabile, che solo Miles sa trarre dalla sua sordina Harmon. Su queste coordinate e con la sapiente supervisione di Gil Evans, è subito trionfo. We Want Miles, il doppio album dal vivo, mette in chiaro che il Re è tornato e riprenderà il suo trono.
Il suono d’insieme, gli assolo ben calibrati e inseriti alla perfezione nel discorso musicale che la band gli fornisce; il dialogo serrato alternativamente con l’acida e nevrotica chitarra di Stern e con il sognante e impetuoso sax di Evans fanno di questa formazione uno dei momenti più alti per il Miles musicista, che può contare su un batterista dal gusto e dall’esperienza infiniti. E se c’è ancora qualcuno che pensa che Jean Pierre sia un temino insignificante, vorrei ricordare che il 90% degli standard del grande jazz del passato altro non erano che canzoncine insignificanti che poi i vari jazzmen hanno reso immortali grazie alle loro improvvisazioni.
Critici miopi e prevenuti hanno spesso stroncato questa stagione della carriera di Miles, ma purtroppo non esistono occhiali per correggere l’ignoranza. La storia ha dato il suo verdetto: quella stagione, forse meno coinvolgente e magari più disposta a ottenere il consenso del pubblico, ha comunque rappresentato l’ennesimo “step ahead” di un musicista che non ha mai dormito sugli allori ma ha sempre spinto in avanti la sua ricerca, il suo continuo esplorare nuove sonorità.
In ordine rigorosamente cronologico, nei primi 2 Cd di The Bootleg Series Vol. 7 – That’s What Happened 1982-1985 vengono riproposte musiche ed esecuzioni che ormai appartengono alla storia del jazz. Dal sestetto sopracitato, si passa alla band con John Scofield e Darryl Jones, alla rimpatriata con John Mc Laughlin, all’esordio alla batteria del nipote Vince Wilburn, “deus ex machina” di questo cofanetto impreziosito, nel 3° Cd, dal concerto integrale del Montreal Jazz Festival, di rara bellezza e potenza sonora, datato 7 luglio 1983. Una menzione speciale, nel 2° Cd, se la merita il sassofonista Bob Berg: splendida voce strumentale, sound, verve solistica. Nè vanno trascurate le inedite versioni davisiane di Human Nature di Michael Jackson, di Time After Time di Cyndi Lauper e la cover mai prima d’ora ascoltata di What’s Love Got To Do With It di Tina Turner.
Miles Davis al Théâtre St-Denis, Montreal Jazz Festival, 7 luglio 1983
Come spiega Steve Berkowitz, amico ed ex collega ai tempi della Sony Music, «questo box in realtà non aggiunge nulla al mito Miles, ma ci permette di ricordare un periodo che, erroneamente, è stato considerato di minor creatività rispetto agli anni precedenti e alle esperienze immeditamente successive. Qui Miles getta i semi per quella che sarà la stagione dei grandi trionfi ai festival estivi e che culminerà con il capolavoro Tutu, inciso purtroppo per la concorrenza: la Warner!».
«Gil, mettici le mani tu su questi brani. Fanne quello che sai».
«Amico mio, sono già perfetti così. Ma tu suona un po’ di più, facci questo regalo!».
Da quel dialogo a casa di Evans, Miles Davis ha compreso che non doveva risparmiarsi. Non l’ha fatto e gli ultimi anni della sua carriera si sono rivelati esemplari. Ha cominciato a suonare con la campana della tromba rivolta al pubblico e a Umbria Jazz è sceso addirittura in platea e ha cammminato suonando in mezzo agli spettatori. Stava nascendo l’ultimo Miles, quello che si concedeva al pubblico e addirittura sorrideva durante le interviste. Sempre avanti, mai uguale a se stesso. L’ennesimo, geniale esempio del più grande trombettista che sia mai esistito.