Promettente, giovane regista e sceneggiatore, Luca Solina ha iniziato a scrivere professionalmente per il cinema nel 2009 e ha esordito nel 2012 con la serie tv Puzzle, poi trasmessa dal canale LA3. Ha già al suo attivo 6 regie, tra film e cortometraggi. A questa attività, Luca unisce quella d’insegnante di Recitazione con Macchina da Presa all’Accademia Artisti di Milano; nonché CineTribe, la casa di produzione da lui creata per chi vuole cimentarsi nell’audiovisivo. Da una chiacchierata informale è nata questa vera e propria intervista.
Ricordi il primo momento in cui hai detto “voglio fare il regista”?
«Certo che mi ricordo, ma a differenza di ciò che sentiamo raccontare da molti, la mia non è stata una poetica situazione da “ho sentito la chiamata”. In realtà ho sempre voluto scrivere i film, diventare sceneggiatore. La prima sceneggiatura (che non posso nemmeno definire tale) l’ho redatta che avrò avuto 6-7 anni: 10 righe tratte dai fumetti di Topolino. E quando ho iniziato a scrivere professionalmente, dopo l’università, ho visto i miei lavori messi in scena da altri registi scoprendo per la prima volta che quello che vedevo sullo schermo non coincideva mai con ciò che vedevo nella mia mente mentre scrivevo il testo. Ed è subentrata una forte frustrazione, mischiata con una bella dose di self-confidence (che alcuni definirebbero superbia). Ero infatti assolutamente convinto che avrei potuto fare meglio di quei registi. Perciò nel 2011, a una serata di proiezioni e dopo l’ennesima delusione (particolarmente cocente, visto che il testo aveva vinto un festival come miglior sceneggiatura) ho deciso una volta per tutte che se un mio testo doveva essere massacrato da un regista, quel regista avrei dovuto essere io, punto e stop. Vorrei raccontare aneddoti più poetici, ma sono un tipo “pane al pane, vino al vino”: è andata così. Di necessità virtù».
Luca Solina
Quali sono i tuoi punti di riferimento fra i registi? Ed essendo anche sceneggiatore (ovvero scrittore), quali fra i romanzieri?
«Per quanto riguarda la regia e la visione generale di un progetto, l’utilizzo della telecamera, il gusto fotografico e la gestione degli attori, i miei registi di riferimento sono senz’altro David Fincher, Quentin Tarantino e Christopher Nolan: il 1° per le atmosfere, il 2° per la brillantezza (anche nella scrittura), il 3° per il genio visionario (anche se non sempre). Mi piacciono molto anche registi a mio parere giganteschi ma meno presenti su copertine e giornali come Michael Mann; e adoravo lo stile ipercinetico di Tony Scott (il fratello di Ridley). Steven Spielberg non lo sto nemmeno a ricordare: è un genio totale ma è talmente inarrivabile, per me, che mi fa paura anche solo inserirlo in questa lista. Per il resto, mi concentro molto sulla singola opera più che sul suo autore. Se parliamo di registi italiani mi rifaccio invece al passato: Mario Monicelli, Ettore Scola, Dino Risi, Pietro Germi e la loro squisita abilità di raccontare le emozioni. Dei registi più iconici della Storia (John Ford, Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese), riconosco l’importanza e la rivoluzione che hanno portato, ma sono cresciuto con un’altra generazione di cineasti. Riguardo alla scrittura, dobbiamo invece distinguere: parlando di romanzieri l’uomo che più mi ha cambiato è stato Michael Crichton. Penso che senza di lui non avrei imparato ad amare così tanto la fiction. Stephen King lo citano in parecchi, ma per me è “sì e no”: dipende molto dalla singola opera. Ma il romanzo è un mezzo di scrittura così diverso dal film che penso sia più giusto parlare del mio più grande modello, lo sceneggiatore Aaron Sorkin, di cui ho anche avuto l’onore e il piacere di frequentare una masterclass. Senza di lui non sarei uno sceneggiatore. Penso che chiunque legga i miei testi non possa che trovarci dei continui rimandi stilistici».
Sei laureato al DAMS e hai una certa esperienza internazionale. A chi volesse seguire una strada come la tua, consiglieresti di tentare un’occasione all’estero? Magari la gavetta a Hollywood. Sarebbe una possibilità o un’utopia?
«L’argomento Hollywood è assai complesso. L’industria del cinema americano, anche quello indipendente, è radicalmente diversa dalla nostra: per certi versi più facile, per altri estremamente più difficile. Il confine tra possibilità e utopia è sottilissimo. È vero, la burocrazia è più snella (basta pagare, hanno un tariffario per qualsiasi cosa, paghi e fai quello che vuoi nel giro di 2 giorni), senza dubbio sono più propensi ad ascoltare nuove proposte; e chiaramente è più facile trovare investitori con grosse somme (basti pensare che negli USA un film che costa 2.000.000 di dollari è considerato low-budget). Ma non dobbiamo dimenticarci che la concorrenza è infinitamente superiore in termini di film-makers (ce ne sono tanti, tutti bravissimi!), poi c’è il problema della lingua (io sono quasi C2 in inglese, ma ancora non basta per scrivere un film in modo credibile, soprattutto pensando ai dialoghi), bisogna sapere che anche a Hollywood si entra per contatti e conoscenze, quindi bisogna trasferirsi a Los Angeles e iniziare a fare intenso networking (ma c’è il problema del visto di permanenza per gli Stati Uniti) e soprattutto tenere sempre a mente che comunque là sei lo straniero e gli americani privilegeranno sempre un americano, a parità di bravura. Di contro, qui in Italia abbiamo un iter burocratico improponibile e zero soldi, ma è più semplice mettere su un team intorno a un progetto (se il testo è forte) e più facile arrivare ad avere un prodotto finito tra le mani (se si hanno le risorse personali per farlo). Abbiamo meno concorrenza interna (parlo ovviamente di prodotti di alto livello) perché sì, siamo 60.000.000 ma comunque meno di 1.000.000.000 di anglofoni nel mondo. E poi, comunque, a Hollywood ti considerano con un occhio diverso se arrivi avendo già costruito un background nel tuo Paese: io sono riuscito a far leggere il mio testo a una consulente della Metro Goldwyn Mayer perché ho vinto 5 festival e prodotto 6 lavori tra film e serie. Altrimenti sarebbe stato impossibile. Quindi suggerisco di iniziare qui in Italia. Poi, chiaramente, ognuno ha la sua storia».
Sei regista e sceneggiatore. Quali sono gli aspetti più positivi delle 2 attività e quale vantaggio a interpretare entrambi i ruoli?
«Il più grande vantaggio, per me, è avere il totale controllo della visione artistica del progetto. So perfettamente cosa voglio perché l’ho immaginato nella mia testa; e so perfettamente cosa racconterò perché l’ho scritto. Il che dà all’opera un senso di coesione che altrimenti non ci sarebbe. Altro grande vantaggio: non devo passare attraverso telefonate e discussioni se voglio modificare qualcosa, che sul set si traduce in una grande flessibilità, senza interrompere la produzione. Avendo questo “potere”, posso rispondere sempre in modo preciso alle domande che mi fanno attori e troupe senza il timore di scavalcare i ruoli. Alcuni direbbero che 2 teste lavorano meglio in sinergia anziché una sola, ma non è che coprire entrambe le cariche mi impedisca di chiedere pareri sul mio lavoro».
Con il cortometraggio presentato a Cannes nel 2015, Doppio Zero, hai parlato con un certo anticipo di violenza sulle donne rispetto a quanto invece appare sui TG. È la dimostrazione, come diceva Oscar Wilde, che “La vita imita l’arte?”
«Purtroppo anch’io, con Doppio Zero, ho fatto sì che fosse l’arte a imitare la vita. Il fenomeno della violenza sulle donne è una tragica realtà che esiste da secoli e l’ho voluto denunciare. Abbiamo girato il corto nel 2014, è uscito nel 2015 e l’argomento era già molto attuale. Certo il lockdown lo ha ancora più evidenziato per la sua valenza sociale. In generale, però, mi sento di dire che sono vere entrambe le frasi: la vita imita l’arte, l’arte imita la vita. Spesso mi chiedo quante delle invenzioni che oggi abbiamo sarebbero nate comunque se non ci fossero stati i film di fantascienza ad anticiparle; e allo stesso tempo, quanti crimini e gesti d’amore non sarebbero mai stati messi in scena se non fossero davvero esistiti nella vita reale».
Un frame della serie televisiva Survival
Survival, la tua serie inquietantemente distopica trasmessa in Brasile e in Corea del Sud, si è aggiudicata 3 premi internazionali. Merito di un pubblico più ricettivo a certe tematiche o di una tua predisposizione al fantascientifico/distopico che, magari, gli ha conferito quel “quid” in più?
«La mia tesi di laurea era sul cinema di fantascienza anni 80 e non posso negare che la fantascienza e il thriller siano da sempre il mio pallino. Sono generi che, oggettivamente, oggi sono molto in voga: forse i più visti insieme alle commedie. Survival ha avuto l’abilità di inserirsi in un contesto di grande interesse di pubblico nel momento giusto; e questo può avere influito molto sul suo successo. Penso, magari peccando di superbia, che sia stato così premiato anche per il valore innovativo: il suo format era stato pensato per essere visto sui mezzi pubblici, in pausa caffè, perfino al bagno!, con puntate di appena 5-6 minuti focalizzate su un unico avvenimento interrotto nel momento di massima tensione. All’epoca (2016) non c’era nulla del genere su YouTube Italia. La location affascinante (un manicomio abbandonato) ha senz’altro aiutato, oltre che il lavoro straordinario di un gruppo di persone (troupe e cast) che si sono sottoposte davvero a torture inimmaginabili per portare a termine il lavoro (abbiamo girato a dicembre, con temperature vicine allo zero, senza riscaldamento, senza comodità, senza cibo, sempre all’aperto, superando ogni genere di imprevisti tecnici). Penso che tutto ciò abbia impattato positivamente sul prodotto, contribuendo al risultato finale».
Tuttavia ho molto apprezzato il tuo film più leggero, 6 meglio di me, buono anche come sceneggiatura. Un esempio di grande versatilità. Ritieni di poter essere (o voler essere, contemporaneamente) Gabriele Salvatores ed Enrico Vanzina, o credi che in futuro seguirai un percorso più caratterizzato in un modo o nell’altro?
«Ho voluto girare una pellicola comedy come 6 meglio di me per mettermi alla prova, dopo tanti thriller e drama, con un testo più divertente e dalle atmosfere più luminose. È stato un esperimento, anche per capire se fossi all’altezza di dirigere un lungometraggio autoprodotto e iniziare a padroneggiare i tempi comici anche sul grande schermo, dove il linguaggio è diverso rispetto alla tv e a YouTube. Il film è piaciuto nelle 2 serate di proiezione in sala e ne sono davvero molto felice. Tuttavia, in futuro mi dedicherò a progetti diversi: i testi sono già pronti, hanno un respiro più internazionale e le tematiche sono più serie e riflessive, a tratti scioccanti: pellicole dove l’impatto visivo sarà determinante. Non mancheranno momenti divertenti, ma saranno più basati sull’ironìa che sulla comicità e verranno inseriti dentro storie thrilling a tratti sconvolgenti».
Il cast di 6 meglio di me
Sei anche un infaticabile viaggiatore: su YouTube c’è solo l’imbarazzo della scelta fra travel blogger, travel videomaker e quant’altro. Qual è il tuo parere professionale su quello che sembra diventare un nuovo filone documentaristico?
«Seguo moltissimi travel videomaker a vari livelli: da chi sfodera video in altissima definizione che nulla hanno da invidiare ai documentari delle piattaforme on demand, a chi invece pone l’attenzione sull’aspetto umano del viaggio e su quello che prova mentre viaggia. In particolare nell’ambito di YouTube, penso che ognuno debba sentirsi libero di realizzare i video che meglio ritiene: c’è chi crea questi travel blog perché gli piace farlo e basta, tralasciando visualizzazioni e condivisioni; c’è chi lo fa per monetizzare tramite YouTube e fornire quindi un prodotto confezionato che generi alte views e molte condivisioni. Non credo ci siano vie giuste o sbagliate, anche perché ognuno riesce a conquistarsi una fetta di pubblico differente; e di questi tempi in cui viaggiare diventa sempre più difficile, è una fortuna avere un mezzo a disposizione come YouTube per poter scoprire posti così lontani attraverso le esperienze di altri. Se questo è il futuro del documentario di viaggio, ben venga. L’unica nota negativa che mi sento di fare è che a tratti, con il proliferare di nuovi content creator sulla piattaforma, i video iniziano a sembrare tutti uguali e in molti casi puro virtuosismo stilistico. Ma non si diventa autori solo smanettando bene con una videocamera 4K e facendo volare il drone dappertutto. Ecco perché in questi casi conta ancora la personalità del videomaker. Solo chi è in grado di darsi una propria unicità, riuscirà a resistere e a stabilirsi come caposaldo di questo filone documentaristico».
Hai un portfolio di più di 40 sceneggiature. Qual è lo stimolo che ti fa cominciare a scrivere?
«Ogni volta inizio a scrivere per un motivo differente: dal fatto di sentire il bisogno fisiologico di vomitare parole su carta e raccontare storie che non esistono ma che vorrei esistessero; al fatto di dover scrivere per il bisogno di collocarmi nel mondo e poter dire “sono uno sceneggiatore”. Ma penso che al di là della singola circostanza, dietro ogni sceneggiatura ci sia la volontà di raccontare qualcosa che io stesso vorrei sentirmi raccontare. Creo personaggi che vorrei conoscere personalmente e scrivo un film pensando a un film che vorrei vedere e ancora non esiste. Poi su ogni testo ci lavoro e gli do un messaggio, una connotazione particolare. Lo rendo fruibile anche per un vasto pubblico, ci metto tutti gli accademismi e le tecniche professionali ma l’impulso di base, la prima stesura, è fatta solo per divertire me stesso. Divento autore e spettatore allo stesso tempo: ho l’immensa fortuna di riuscire a inventare storie nell’arco di 5 minuti; e una volta che è partita la narrazione, faccio fatica a starle dietro. Scrivo perché la sensazione di vivere da spettatore una cosa che sta in realtà uscendo dal mio cervello è una sensazione troppo forte, meglio dell’adrenalina. E sapere di poter pilotare gli avvenimenti come voglio è troppo appagante: soprattutto quando faccio fare e dire cose ai miei personaggi che io né farei e tantomeno direi. Loro sono me e io sono loro, eppure è come se fossimo persone diverse che si influenzano reciprocamente. È talmente straniante, che solo chi lo ha provato sa bene di cosa parlo. Questa sensazione è il vero stimolo che mi spinge a scrivere. Poi, dopo, ci metto la razionalità e diventa un lavoro vero».
Qual è il progetto che c’è dietro a CineTribe?
«Ho deciso di fondare CineTribe per 2 motivi. Uno di natura pratica: avevo bisogno di una società legalmente riconosciuta che desse una giurisdizione economico-fiscale ai miei film. L’altro, e più importante, di natura quasi spirituale: volevo creare una società di produzione e consulenza cinematografica che potesse aiutare chi come me ha dovuto fare (e sta ancora facendo) una lunga gavetta per arrivare a vivere di questo mestiere senza aiuti, contatti, raccomandazioni; o banalmente consigli, suggerimenti, istruzioni. Molte persone non hanno idea di quanto sia difficile in questo settore avere relazioni umane ad alti livelli. Un emergente riesce a ottenere informazioni e consigli solo in casi rari ed eccezionali, sperimentando sul campo e subendo fregature cocenti. Non ho mai capito tutta questa ritrosìa nel condividere la propria esperienza artistica o dare un consiglio professionale: se pensi che la tua professionalità venga messa in pericolo da un emergente a cui hai dato un consiglio, secondo me vali molto poco. Un po’ di prudenza ci vuole in questo mestiere, perché non sai mai chi hai davanti, ma ci vuole anche la giusta arroganza di dire “il consiglio te lo do, tanto come la faccio io questa cosa, non la fa nessuno. E se la fai grazie al mio consiglio, meglio per te”. La verità è che questo ambiente è talmente competitivo che alla fine ognuno si tiene tutto per sé. Ma io, in tutta franchezza, sono stanco di questo sistema: quando uno studente mi chiede un consiglio e io glielo do, sembra un evento mentre dovrebbe essere la normalità. Si chiama educazione. CineTribe è nata per aiutare gli emergenti a imparare il mestiere attraverso i nostri corsi, a fare squadra mettendoli in contatto fra di loro, a farli lavorare anche con il mio team su progetti più ambiziosi. CineTribe, inoltre, è nata per produrre nuove opere cine-televisive e per dare ad altri quello che io avrei voluto trovare quando ero studente: gli strumenti per fare in modo che il desiderio diventasse possibile. Il mio socio Francesco, straordinario compositore, ha condiviso la filosofia e nel 2019 abbiamo dato vita al progetto».
Inevitabile domandarti l’impatto della pandemìa sulla tua attività; e se puoi anticipare, per i lettori di CoolMag, qualcosa del tuo nuovo film ambientato durante il lockdown.
«Posso riassumere l’impatto della pandemìa sulla mia attività con una parola: devastante. Siamo stati fra i primi a chiudere, il 23 febbraio scorso eravamo già fermi e a giugno fra gli ultimi a ripartire. Abbiamo lottato per ricevere aiuti dallo Stato che sono arrivati con tutte le difficoltà del caso. Molti partner sono in difficoltà e tanti progetti che avevamo sono stati posticipati o cancellati. La seconda ondata si preannuncia ancora più distruttiva della prima, ma dobbiamo mantenere una visione positiva: abbiamo implementato i nostri corsi online e girato a settembre il nuovo film, ambientato nel primo lockdown di marzo-aprile. Posso anticiparvi il titolo, 58 Giorni, e che si tratterà della storia di 2 semi-estranei che si ritrovano chiusi in casa. Il virus sarà del tutto marginale, poiché la trama vuole essere godibile anche fra 20 anni, quando tutto ciò sarà solo un brutto ricordo e rappresenti la pandemìa così come è stata per la quasi totalità di coloro che l’hanno vissuta: un isolamento domiciliare che li ha costretti a riflettere su loro stessi, la propria vita e un futuro così incerto».