A 40 anni abbondanti dalla pubblicazione, Remain In Light dei Talking Heads continua a girarci intorno come un UFO, un oggetto misterioso dai contorni, dalla provenienza e dall’età indefinibile. Esce nei negozi l’8 ottobre del 1980, ma potrebbero essere gli anni 90, il 2000, il 2020 o un futuro prossimo venturo: gli si addice come a pochi altri l’etichetta abusata di “disco senza tempo“. Talmente avanti allora, e ancora così sorprendente oggi, che risulta impossibile dargli una collocazione precisa. Sfata anche un altro cliché: la tesi secondo cui le tensioni e le fratture che dilaniano le band rock and roll a un certo punto della loro esistenza emergano inevitabilmente in superficie nelle loro produzioni artistiche mostrando crepe e incrinature. Nulla di tutto questo, nel 4° album dei Talking Heads già allora divisi in 2 fronti contrapposti e inconciliabili: il maverick stralunato David Byrne da una parte, la sezione ritmica (e coppia nella vita) composta da Chris Frantz e Tina Weymouth dall’altra, con il polistrumentista Jerry Harrison (ex Modern Lovers di Jonathan Richman) a dannarsi l’anima nel ruolo del mediatore e dell’ago della bilancia.

Talking Heads: David Byrne, Jerry Harrison, Tina Weymouth, Chris Frantz

Ancora una volta Byrne trova il suo principale alleato in Brian Eno, già incaricato della produzione dei precedenti More Songs About Buildings And Food e Fear Of Music e suo complice nel rivoluzionario progetto di My Life In The Bush Of Ghosts, il disco che sdogana con anni di anticipo la tecnica del mash up e del campionamento e che, pur essendo stato completato prima che inizino le session di Remain In Light, giace a lungo nei cassetti in attesa di ottenere tutte le liberatorie necessarie all’utilizzo delle fonti sonore di cui si è appropriato. Le sue esplorazioni geoculturali nel mondo del world beat e dell’electrofunk sono pilastri fondamentali su cui si erige il sound del nuovo disco assieme al brano più sperimentale e “africano” di Fear Of Music, I Zimbra: il “signor Genietto” (Byrne, un tipo il cui sguardo allucinato e il cui pensiero “laterale” inducono talvolta i compagni di band a chiedersi se sia pienamente presente a se stesso) e il “signor Testa d’uovo” (Eno, che fino a poco tempo prima sfoggiava orgoglioso un piccolo distintivo con la scritta “Fight Against Funk”) hanno trovato una passione comune nell’afrobeat nigeriano e in dischi come Afrodisiac di Fela Kuti, uscito nel 1973.

David Byrne e Brian Eno, 1980

Intellettuali nevrotici e metropolitani, scoprono in quei ritmi tribali e ancestrali, in quelle chitarre elettriche che intrecciano riff ipnotici e circolari, un veicolo potentissimo per liberare corpo, mente ed energie creative. Ci aggiungono gli umori delle società occidentali contemporanee e un’elettronica allo stato dell’arte (sono tra i primi a usare il Lexicon 224, un generatore digitale di effetti e riverberi in grado di emulare i rumori d’ambiente delle camere d’eco naturali) creando una miscela inaudita ed esplosiva. Sotto il sole rilassante di Nassau, nei celebri Compass Point Studios da poco aperti dal boss della Island, Chris Blackwell, gli inizi del progetto sono più che promettenti: tutti concordano sull’idea di fare a meno di canzoni dalla struttura classica con strofe e incisi e di registrare invece una serie di jam improvvisate su cui via via si accumulano nastri con strati di voci, chitarre, tastiere, percussioni ed effetti elettronici adagiati su groove e poliritmi ossessivi e ripetitivi; pezzi incentrati solitamente su 1 solo accordo che prendono forma da un montaggio manuale dei loop e delle tracce migliori («Eravamo come dei campionatori umani», dirà poi Byrne) mettendo a dura prova il talento di David nello scovare linee melodiche e testi adeguati.

Poi, quando il team si trasferisce a New York per effettuare sovraincisioni che coinvolgono la leonina cantante (ex Labelle) Nona Hendryx, il trombettista avant-garde Jon Hassell e il chitarrista Adrian Belew, che con Eno aveva lavorato l’anno prima a Lodger di David Bowie, il clima muta e l’atmosfera si fa tesa: Brian si lamenta del sovraffollamento in sala di regìa, David gli dà corda, Weymouth e Frantz vorrebbero un disco più grezzo e si lamentano degli abbellimenti apportati anche nel corso di session supplementari tenute ai Sigma Sound di Filadelfia. Si arriva quasi a una impasse, gli animi si infiammano ulteriormente quando si tratta di spartirsi i crediti compositivi ed Eno propone di mettere il suo nome in copertina a fianco di quello dei Talking Heads («Solo se vieni in tour con noi», gli risponde il manager del gruppo riducendolo a più miti consigli).

18 dicembre 1980: David Byrne e Tina Weymouth durante il concerto dei Talking Heads al Palaeur di Roma

Poco importa, perché il risultato è stupefacente: con la voce animalesca della sua chitarra-synth Roland, capace di barrire come un elefante nella savana o di garrire come un gabbiano, Belew contribuisce a mandare in orbita l’afro funk di Cross Eyed And Painless e l’inebriante vortice sonoro e vocale di The Great Curve, che con l’iniziale Born Under Punches (The Heat Goes On), tutta ritmo, scatti e angoli taglienti, compongono una prima facciata da urlo. Anche se scritti in una sorta di flusso di coscienza esplicitamente ispirato a un libro del professor John Miller Chernoff (African Rhythm and African Sensibility), i testi collage e impressionisti di Byrne trasmettono i suoi umori, le sue intenzioni e il suo stato d’animo: il vocalist e paroliere cerca spazio per respirare, canta e rappa sulle orme di Kurtis Blow mentre osserva le sue sembianze mutare, sintonizzato sulle frequenze di un mondo in trasformazione che, saltando e girando come una trottola, “si muove sui fianchi di una donna”. È musica primitiva e postmoderna, sensuale e cerebrale, raffinatissima e ultra danzabile, un denso amalgama di new wave, Africa e funk americano come mai se ne era sentito prima e che a volte scaturisce magicamente da una serie di errori e di accidenti.

Sarà Once In A Lifetime, il 1° pezzo della seconda facciata, a cambiare per sempre le carte in tavola complice quel video che la nascente MTV trasmetterà in heavy rotation e che porterà i Talking Heads nelle case di milioni di persone a dispetto dell’accoglienza piuttosto tiepida riservatagli dalle radio: Eno canticchia in studio in forma di scat una melodia e un ritornello che aveva in mente, Byrne ci aggiunge le parole del testo e una sorta di “controcanto da coro greco”. Ne nasce un irresistibile e tumultuoso funk pop che tocca le corde di tanti ascoltatori, inebriati dal ritmo e probabilmente capaci di riconoscersi nei panni di un uomo dislocato e in crisi di identità, pronto a lasciare i simboli del suo benessere borghese (la bella moglie, la bella auto, la bella casa) per abbandonarsi alle correnti impetuose della prima forma di vita, l’acqua. Il riff prepotente di basso, i suoni liquidi di synth e di chitarra, il ritornello aperto e orecchiabile, il ritmo implacabile, l’immagine (nel video) di un uomo frastornato e barcollante che declama come un predicatore evangelista fanno presa sul pubblico mainstream, portando il disco in Top 20 in America e appena al di sotto in Inghilterra.

Ma più che i numeri conta l’impatto nell’immaginario collettivo, nella corteccia cerebrale degli ascoltatori. A dispetto dei suoi groove, dell’afrobeat rivisitato e dei suoni stratificati, a volte si dimentica che Remain In Light non è un disco unidimensionale: il suo lato B è più introspettivo, ambient e riflessivo, a partire dalla trance funk lenta ed espansa di Houses In Motion che la tromba di Hassell riempie di note vaporose, misteriose e spettrali e da una Seen And Not Seen che sembra essere stata prelevata di peso da My Life In The Bush Of Ghosts, mentre Listening Wind è il pezzo più melodico e l’unico con uno storytelling in qualche modo coerente (protagonista un giovane terrorista che mette in atto un attentato dinamitardo contro gli americani colonialisti) e The Overload non può non far pensare (anche nel cantato tremolo, atonale e profondo di Byrne) a una versione americana e aggiornata dei Joy Division, di cui pure gli Heads giurano di non avere mai ascoltato nulla fino a quel momento.

Sono nuvole scure che sporcano di ansia e paranoia i cieli azzurri, le good vibrations, e l’umore celebrativo di Remain In Light regalando una prospettiva più sfaccettata a un capolavoro partorito da un team disgregato ma con lo sguardo puntato nella stessa direzione. «Dopo che lo registrammo», ha raccontato Belew, «dovunque mi trovassi a camminare, fosse SoHo o Tokyo, la musica dei Talking Heads usciva dall’uscio delle case, dai ristoranti, dalle librerie». Fu quel disco ad accendere la miccia di uno stratosferico tour che nessun testimone oculare ha mai dimenticato (le immagini del concerto di Roma, ripreso dalla Rai, sono disponibili su YouTube: talmente esaltanti che ad esse Chris Frantz dedica l’apertura della sua autobiografia Remain In Love) e a tenere in vita il quartetto per altri 8 anni ricchi di soddisfazioni e di grande musica. Dal 2017 una copia è custodita presso la Library of Congress americana tra le opere d’arte statunitensi “culturalmente, storicamente e artisticamente significative”. Giusto così, anche se il suo sound futurista consiglierebbe forse di spedirne una anche nello spazio: che abbia ragione Camína, la giovane artista texana di origini ispaniche, quando dice che «Remain In Light ha il suono che avrebbe il cosmo, se alieni ed esseri umani suonassero assieme in una band e incidessero la colonna sonora di un film di Quentin Tarantino ambientato negli spazi siderali»?

Talking Heads, Remain In Light (1980, Sire Records)