«Mai stati un gruppo prog». Anche se il mensile inglese Classic Rock li ha premiati come pionieri del Progressive Anni ‘70, ancora oggi i Family ci tengono a ribadire la loro diversità. «Nessuno ha mai potuto considerarci pretenziosi», ha dichiarato il frontman e vocalist Roger Chapman precisando con orgoglio: «Eravamo una rock’n’roll band a cui piaceva sperimentare». Riascoltando il loro primo album non si può che convenire con lui. Anche se quell’antico Lp, Music In A Doll’s House, che nel 1968 anticipò di qualche mese il White Album dei Beatles soffiando loro il titolo prescelto per la loro nuova opera, emana tuttora uno spirito ambizioso e un’aria molto avventurosa. Insomma, “progressiva”. I Family di Roger Chapman e del coautore di quasi tutto il repertorio nonchè chitarrista JohnCharlieWhitney, all’epoca erano una delle più eccitanti “next big things” della scena britannica: una formazione compatta e incredibilmente versatile trascinata da quel cantante ruvido e scontroso: un ariete di sfondamento che in concerto si lasciava andare a movimenti disarticolati (gli inglesi lo chiamano “idiot dancing”) sfasciando tamburelli e sfoderando un vibrato squassante da far impallidire Joe Cocker (Peter Gabriel prenderà nota e ispirazione). Lanciati da esibizioni incendiarie allo UFO, alla Roundhouse e al primo festival gratuito ad Hyde Park; chiacchierati per i pruriginosi racconti contenuti nel romanzetto Groupie di Jenny Fabian (l’autrice raccontava le loro prodezze celandoli dietro nomi di fantasia di facile decifrazione); patrocinati dal bizzarro autore, produttore e talent scout americano Kim Fowley che li aveva battezzati “la Famiglia” dopo averli visti indossare gessati da gangsters della Chicago Anni ‘20, esordivano su disco prima di King Crimson, Genesis e Yes. E piacevano a tutti: a Ian Anderson dei Jethro Tull, pronto ad ammettere i suoi debiti di riconoscenza. A John Lennon, che spendeva parole di ammirazione nei loro confronti. A Elton John, che nel ‘72 li volle in tour in America con lui. Per quel primo album pubblicato dalla Reprise americana, il manager John Gilbert (figlio di Lewis Gilbert, regista di Alfie e di 3 titoli della serie di James Bond) fece le cose in grande arruolando in veste di produttori l’esperto Jimmy Miller (uomo di fiducia dei Rolling Stones) e Dave Mason dei Traffic. Le sessions ebbero luogo in un clima anarcoide e da “tutto è possibile” come si conveniva all’epoca; e il risultato fu stupefacente, a dispetto dei limiti tecnici imposti dalla registrazione a 4 piste.

In studio, la musica dei Family diventava una casa di bambole dove ogni stanza veniva dipinta e arredata in modo differente ricorrendo a combinazioni strumentali allora inusuali per un gruppo rock: i sax di Jim King mixati con il basso elettrico, il violoncello e il violino di Ric Grech (poi con i Blind Faith a fianco di Eric Clapton, Ginger Baker e Steve Winwood), i suoni esotici del sitar alternati a quelli “roots” dell’armonica, le pennate secche di chitarra elettrica e l’agile “drumming” di Rob Townsend a incrociarsi con gli accordi distesi del mellotron. Legate da alcune brevi “variazioni sul tema“, le canzoni di Music In A Doll’s House sfumavano l’una nell’altra componendo una suite psichedelica e cangiante, fra i corni inglesi da caccia alla volpe di The Chase e le dissonanti vertigini di Voyage; il pop dolciastro e colorato di Never Like This (ricorda i primi Traffic? Per forza, la firma è di Mason…) e i barocchismi di Mellowing Grey e del singolo Me My Friend; il blues soffice e acidulo di Hey Mr. Policeman e le scansioni orientaleggianti di See Through Windows; i rintocchi d’orologio della svagata The Breeze e l’irresistibile folk rock di Peace Of Mind, cavalcata trionfale che chiudeva i concerti dell’epoca sull’onda di un riff di violino dalla fragorosa potenza rock. Stupivano, i Family, con un trasformismo che gli faceva mutar pelle anche nell’ambito della stessa canzone. Come in Old Songs New Songs, titolo programmatico in cui uno swingante rhythm & blues conviveva assurdamente con un refrain da coro gregoriano. O nello strambo epilogo di 3 x Time, marcetta conclusa da una sgangherata versione di God Save The Queen: a ribadire, forse, che quell’eccentricità era rigorosamente British a dispetto dell’amore confessato per i suoni tradizionali americani. Musica d’altri tempi, che profuma di “erba” e di patchouli evocando Swinging London e Flower Power. Ma con una rudezza e modi spicci che erano un tratto distintivo dei 5: proletari di Leicester, profonde Midlands industriali, che avevano frequentato pubs e cantieri più che college e scuole d’arte. La breve storia del gruppo prenderà poi strade diverse: con altri dischi straordinari (soprattutto il secondo, Family Entertainment, e il quinto, Fearless), canzoni simbolo (The Weaver’s Answer, il loro passaporto, e la ballata acustica My Friend The Sun) e qualche singolo da classifica (In My Own Time; Burlesque), in uno stile che ingloberà via via jazz, hard rock, folk, country & western, vaudeville, funk. Ma anche troppi cambi di formazione (per la porta girevole di casa Family passeranno anche John Wetton, subito dopo alla corte del Re Cremisi; e Jim Cregan, poi braccio destro di Rod Stewart), sfighe assortite, scelte sbagliate ed episodi sfortunati (come quella volta che l’irascibile Chapman scagliò a bordo palco l’asta del microfono sfiorando involontariamente il leggendario impresario Bill Graham: una croce sulle speranze di conquistare il mercato statunitense nel momento migliore della carriera). L’ultimo atto se lo giocheranno in casa, al Politecnico di Leicester, il 13 ottobre del 1973, con un emozionante concerto d’addio e un party selvaggio in hotel tra fiumi d’alcol, sostanze illecite e il buffet a gambe all’aria in piscina. Una storia d’ordinario folklore rock’n’roll, per una band che di ordinario aveva davvero poco.

Family, Music In A Doll’s House (1968, Reprise)