La voce del Boss, in diminuendo, parve quasi assopirsi sotto il palato, addormentarsi con grazia sulla lingua.

Il racconto era giunto al termine: l’aria, che fino a quel momento aveva ospitato un rumoroso stuolo di parole, aveva ora il silenzio per unico inquilino. Un classico silenzio, fitto di riflessioni.

L’arcangelo, rapito in estasi, ammirava il pensoso broncio del Boss: a Gabriele, che non si stancava mai di lamentare la pressoché totale perdita della bontà come il più gran difetto del Servizio Recupero Anime (S.R.A.), sembrava adesso di risorgere a nuova vita (come il Boss un tempo) e di ritrovare la sua antica purezza.

Dolcemente sopraffatto dall’umiltà di un Boss che si fa bagnino, Gabriele sentì di aver riconquistato il candore degli angeli e, commosso sino al pianto, si trattenne dal prostrarsi dinanzi al Signore (per lavargli i piedi a suon di lacrime) solo perché non avrebbe saputo poi come asciugarle, essendo sprovvisto dei rinomati capelli di M. Maddalena.

A ogni modo non si fece scoraggiare da un tale inconveniente e colse l’occasione per cadere almeno in ginocchio e singhiozzare come un serafino con le ali da latte.

Anche Saturni angelo Minervio non fu insensibile al racconto del Boss: già da qualche minuto pareva assorto nella contemplazione di Noè, mentre, preso da quell’intontimento sonnambolico che lo faceva stare a occhi sgranati dirimpetto ai tramonti, canticchiava a fior di labbra una melodia flebile e soave: “E vieni in una spiaggia al caldo e al sole. O Bagnino mio divino, io ti vedo qui a nuotar”.

Le mistiche note si spandevano leggere nell’ufficio. Il Signore però, accoccolato sul trono dei cieli in raccoglimento trascendentale e profondo, non le udiva nemmeno. Il capo reclinato all’indietro, le braccia abbandonate, guardava estaticamente nel vuoto, con la mente affannata a esaminare ricordi e innescare ragionamenti.

“Il disgraziato” – sbuffò a un tratto in tono lagnoso – “è campato tutti ’sti secoli perché finora non ho avuto il fegato di chiamarlo. Sapete, la smorfia scompigliata con cui mi urlò: “Non te la perdono!”, mi è rimasta dentro; l’ho pure sognata di notte. Così, ogni volta che stavo per mandare qualcuno a prenderlo, mi veniva il magone… Insomma, mi son dovuto minacciare le dieci piaghe d’Egitto per convincermi a farlo morire e trasportare qui. E d’altra parte non potevo lasciarlo ancora sulla Terra: aveva superato già da un bel pezzo l’età di pensionamento dalla vita, no?”.

Monologava ad occhi bassi, lo sguardo sempre immerso in auguste meditazioni. Pronunciando l’ultima frase si riscosse, però, e, visto l’arcangelo deliziosamente impegnato in un pianto esuberante e beato, esclamò: “Ma che combini, Archie!? Togliti quelle lacrime dalla faccia! Altrimenti mi rendi tutto più difficile. Perché… perché io… Oh, come dirvelo? Arrossisco… per la vergogna e l’imbarazzo mi nasconderei! Io… io… ” – e finalmente con improvvisa, disperata fermezza – “Oh, accidenti: il disgraziato è nel mio ufficio perché voglio chiedergli perdono! Sì, perdono per la carognata d’avergli ricostruito la vita, quando lui invece non desiderava che mari ed oceani: semplicemente e solamente oceani… ”.

Mentre questa confessione, carica di pentimento, filava rapida di lettera in lettera e di sillaba in sillaba, ad una velocità prodigiosa (sicuramente alimentata con pudore ad ottanta ottane) Gabriele, sforzandosi tenacemente di smorzare il pianto, si dava sulle guance ditate energumene che cancellavano le lacrime, schiacciandole come formichine moleste. Ma appena ebbe afferrato il senso delle ultime parole, quelle che a rotta di collo ed in fretta in fretta eran uscite dalla bocca e dalla voce del Signore, non poté più resistere e scoppiò in un temporalesco impeto di commozione, gridando: “Lode a te, oh mio Boss! Che cosa sono io, in confronto alla tua umiltà, se non un satanello di dubbia qualità?!!!”.

Evidentemente l’arcangelo aveva il pianto contagioso: perché il Capoccia dei cieli, dopo averlo guardato un istante, si chinò sulla scrivania. La testa fra le mani, i gomiti sul bordo di marmo, implorò, rauco di lacrime: “Perdonami Noè!” – si torturava con le unghie il cuoio capelluto – “Perdonami, disgraziato!”.

Saturni angelo Minervio, turbato nel suo letargo contemplativo da quell’accorata e divina contrizione, distolse gli occhi da Noè e cominciò a piangere per simpatia.

Si andò avanti in questo sgorgare di bagnaticce adorazioni e umidi mea culpa per un buon paio d’orette. Adesso frignava anche il Bambin Gesù (spaventato dai deliri di commozione in cui Gabriele sguazzava senza ritegno alcuno); intanto lo Spirito Santo, da bravo volatile che s’intende di stagioni, iniziava a migrare verso lidi più caldi.

“Evviva, il diluvio universale! Guarda come viene!!”, esultò, qui giunti, una voce che si alzava entusiastica dalla poltrona di Noè.

“Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto!”, continuò la voce. Dopodiché, con un balzo agile, l’anima di Noè (svegliata dai piagnistei assortiti) si rizzò sullo schienale della poltrona, scrutando gli orizzonti dell’ufficio.

“Che scherzo è?” – s’indignò con un tono fra il deluso e l’offeso – “Questa non è una barca, ma una stupida seggiola imbottita! E voi che fate: un diluvio a domicilio?”.

Scese dalla poltrona e fissò uno per volta i quattro piangenti.

“Beh, mi meraviglio!” – li rimproverò – “Vi fate il diluvio privato senza nemmeno offrirmi un tuffo! Bell’egoismo! E siete angeli, poi! …Ehi, chi si vede: l’Ammiraglio!” – proruppe allegro, volgendo gli occhi sull’ultimo dei quattro e riconoscendo il Boss che lo squadrava impietrito dalla scrivania – “C’è sempre un tempo splendido quando c’incontriamo, eh? Dimmi: come sono naufragato da queste parti?”.

“Non ci sei naufragato” – precisò il Boss, belando di sottomissione – “Ci sei arrivato per ordine mio. È l’ufficio in cui lavoro abitualmente”.

Terminata la breve spiegazione, il Signore non aspettò nemmeno di girare intorno alla scrivania, ma si slanciò attraverso il piano di marmo fino a piombare direttamente ai piedi di Noè.

“Perdonami!!!” – sbraitò, con uno sguardo che grondava lacrime e pentimento – “Abbi pietà di me!!!”.

“Che farnetichi, Ammiraglio?” – s’insospettì Noè – “Perdonarti di cosa?”.

“Ma… ma di riaverti creato il mondo con vita annessa!”. Più che una risposta, era quasi un’esclamazione di protesta.

“Uhuhuh, povero Ammiraglio!” – celiò Noè, amabile e bonario – “Ancora ti preoccupi! Ma andiamo, se questo è il tuo ufficio io sono ormai abbondantemente morto. E allora decade automaticamente qualsiasi mio problema di paura della morte o di odio per la vita o… ”.

“Triplo disgraziato!” – il Boss (convinto che a un Boss il perdono non si possa rifiutare, e indispettito perché gli sembrava che il suo pentimento non venisse apprezzato a sufficienza) s’accipigliò tutto d’un colpo e alzandosi acchiappò Noè per il bavero – “Inventi storie per non perdonarmi! È così, specie di satanasso irresponsabile e picchiato?!!!”.

“T’assicuro, Ammiraglio… ”.

“Un corno, disgraziato cubico!!!”.

Scalpitanti saette brillarono negli occhi del Boss: “Ti avverto per la prima e unica volta: o mi perdoni o ti fulmino!”

“Deciso: ti perdono” – Noè non era per nulla scosso da quelle minacce: parlava in tono pacato e amichevolmente compassionevole – “Anzi: facendomi morire lo hai già preso da solo il tuo perdono, Ammiraglio”.

Il Boss, perplesso, rimase con un fulmine che gli usciva a metà dall’occhio sinistro.

“Davvero?” – chiese – “Davvero sono già perdonato?”.

“Ma certo!” – gli garantì Noè – “E se poi non ti basta, qua la mano Ammiraglio, che ti perdono un’altra volta!”.

Strinse fra le sue la mano del Boss (che intanto aveva mollato il bavero) dandogli infine una pacca affettuosa sulla spalla.

“Ti dirò, Ammiraglio: perdonare è il miglior modo per liberarsi dal presentimento di aver torto. Perché, fino a quando non si perdona, avremo sempre il rimorso d’aver rubato una vittoria; avremo sempre il rimorso d’aver noi torto, anche se magari tutti (incluso l’avversario) riconoscono a piena voce che siamo nel giusto. Quindi, capisci Ammiraglio?, perdonare è il miglior modo di pentirsi! …E se mi permetti” – si scusò dopo un istante, con un lieve sorriso – “anche questa, come dichiaravo (energicamente!) qualche secolo addietro, è flagrante vigliaccheria” – fece un piccolo salto, battendo le mani con bizzarra foga clownesca – “Solo viltà, viltà, viltà viltàviltàviltàviltà e viltà! Quindici uomini, quindici uomini (in coro, Ammiraglio!) quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rhum! Ahah!”.

Il Boss aveva grugnito di sollievo poco prima: si era sentito al settimo cielo con la certezza del perdono; aveva conosciuto le delizie della beatitudine, persuaso ormai che la dannata espressione di Noè (quando aveva gridato: “E no, Ammiraglio: questa non te la perdono!”) non sarebbe venuta più a mandargli in bianco i sonni e in subbuglio i sogni!

Figurarsi dunque la sua faccia, e quali satanici propositi gli passarono nel cuore, appena Noè, elucubrando a raffica, s’avventurò nel suo ritornello sulla viltà, scandendo sguaiate canzoni della filibusta.

Il povero Boss, in una parola, si coprì il volto con la mano destra, artigliando le guance come volesse scarnificarsi; la mano sinistra, protesa verso Noè, pareva indecisa se avvinghiarsi intorno alla gola del maledetto, se chiudersi a maglio o limitarsi a un disperato e, quindi, imperioso cenno (di quelli che sembrano dire: “Va’ via! Va’ via seccatore intollerabile, biquadratico e poliploide!!!”).

“Ora basta, disgraziato di dimensioni bibliche!!!” – ruggì, effettivamente, il Boss – “Prova ancora ad aprir bocca e io ti… ti… ”.

Come un indemoniato mimava i gesti del pugno e del manrovescio, infilzava Noè con spade immaginarie e frenetiche, gli mozzava la testa con desiate scimitarre! Stava già per cedere alla voluttuosa tentazione di fulminarlo, quando… quando gli venne in mente la soluzione più ovvia: la più pulita e legale al tempo stesso. Che sciocco a non averci pensato prima!

Il Boss, riacquistata d’un tratto la calma, si girò verso la scrivania, la circumnavigò (è il caso di dirlo, assediata com’era da un autentico fossato di lacrime, in continuazione rifornito di acque grazie ai due angeli e al Bambin Gesù, che non avevano smesso di “laudare e piagnere”) la circumnavigò, dunque, e approdò al trono dei cieli.

“Eh, disgraziato mio” – commentò in perfetta serenità, dopo il fugace parossismo d’ira in cui era incappato – “sei estremamente noioso con la tua vigliaccheria. La usi troppo: la ficchi dappertutto. E poi, quel che è peggio, io sono davvero stufo di perdere la testa dietro ai tuoi ragionamenti, di scordare me stesso ad ogni piè sospinto e di venirti a implorare perdoni vari. Perciò, disgraziato mio caro, anche se ufficialmente meriteresti una sistemazione da noi, in Paradiso, beh” – scosse la testa esibendo un ghigno mefistofelico – “credo proprio che sarò costretto a… ”.

Come a terminar la frase, s’allungò a prendere da un angolo della scrivania un curioso e graziosissimo telefono color celeste. Noè, che fino a quel momento non aveva mai cessato di sorridere e di guardare cordialmente il Boss, vedendo entrare in gioco quel piacevole oggettino, iniziò palesemente a cambiar espressione.

Il Signore non se ne preoccupò: alzò la cornetta, compose un numero (666: le uniche tre cifre della tastiera!) e attese amabilmente la risposta.

Quando, di lì a un istante, una voce trillò dall’altra parte in un gradevole accento francese, il Boss sorrise con gaia malizia allo sguardo indignato di Noè.

“Pronto, qui è la direzione” – flautò – “Parlo con l’Hotel “Divino Inferno”?”.

“Mais oui!” – la voce arrivava attutita, eppure briosa – “Ici è la réception. Bonjour monsieur le Boss: io sono Minosse, le portierre di notè e di jornò!”.

“Sì sì, ci conosciamo. Ciao Min!”.

Indubbiamente i ripetuti contatti professionali avevano generato (e non creato) una certa qual confidenza.

“Senti Min, non c’è mica qualche stanza libera? Che mi dici?”.

“Oh, da noi scè sempre spasio!” – ribatté Minosse con disappunto, come se avesse subito un piccolo affronto – “Dove scè n’è per un’infinité, sce n’è pour duè: c’est il nostrò motò. Tu lo sai, non è vero monsieur le Boss?”.

“E come no!”, accondiscese il Boss, che pareva divertirsi un mondo a guardar Noè: costui, per l’occasione, sfoggiava un arabescato volto fantasia con sfumature e accostamenti di colore davvero originali e squisitamente caleidoscopici.

“Alors” – chiese Minosse – “a quale pianò prenoto la stansa, monsieur le Boss?”.

“Oh, non importa! Ci ho ripensato… ” – fece il Boss con demoniaco sadismo, dando per un attimo a Noè un’insperata, violenta speranza – “Sì, ci ho pensato e ripensato, flettuto e riflettuto, e ho deciso che il piano non importa: basta che la camera abbia tutte le comodità, compresa l’acqua corrente (meglio se gelata), e che sia in posizione ben ventilata, esposta a un fresco venticello costante. Mi spiego?”.

“Certainement, monsieur le Boss!”, squittì Minosse con giuliva esultanza: la sua voce lottò, per non sprizzare gioia da ogni parola.

“Eccellente, Min!” – esclamò il Boss con una soddisfazione quasi aggressiva – “Aspettatevi un arrivo espresso, tra qualche minuto! Eheh!”.

Posò il ricevitore, spinse da parte l’apparecchio e domandò a Noè, con ironia: “Come va la vigliaccheria, disgraziato bello?”.

L’arcangelo Gabriele aveva mutato espressione e comportamento sin dall’inizio della telefonata, esattamente come Noè: ora non si sognava minimamente di commuoversi e sembrava guarito dall’eccesso di purezza e bontà. Squadrò il Boss con risentimento e compassione (che in questo caso altro non era se non un disprezzo rispettoso).

Anche Saturni angelo Minervio aveva gli occhi asciutti: il suo sguardo fu velocemente invaso da un nuovo incantamento, che lo lasciò a stamparsi nelle cornee il profilo del telefono celeste che, in un cantuccio della scrivania, giaceva con discrezione, in accurato silenzio.

Noè attese, prima di rispondere al Boss: attese di fissarlo negli occhi, sdegnosamente scandalizzato (ecco un’altra espressione che il Boss non dimenticherà più).

Poi Noè volse le spalle al Signore e scrutò accigliato l’eternità, che si stendeva pigramente al di fuori dell’unica finestra ricavata nell’ufficio.

“E no, Ammiraglio” – disse – “Forse tu scherzi, ma io” – la frase, iniziata in tono aspro, si sbiadì in un accento quasi desolato – “questa non te la perdono”.

© Pietro Pancamo

Poeta, novelliere, editor professionista, Pietro Pancamo è nato a Cuneo nel 1972. Suoi testi sono apparsi sul Corriere della SeraIl Fatto Quotidianola RepubblicaLa StampaPoesia (Crocetti Editore)AtelierGradivaPoetarum silvaCarmillaIl RidottoIl Paradiso degli OrchiFantasyMagazineIF. Insolito & FantasticoVibrisseEl GhibliCronache letterarieScriptamanent (Rubbettino Editore)Suite ItalianaDiogen (rivista di Sarajevo, fra le più importanti d’Europa). Cura la sezione poesia del mensile italo-olandese Il Cofanetto Magico, conduce la rubrica letteraria (Pod)cast away su Maratea Web Radio. Oltre ad aver fondato e diretto il portale culturale L(‘)abile traccia (citato nel 2007 in un volume della Zanichelli), è stato direttore editoriale della rivista internazionale Niederngasse, caporedattore per la poesia dell’e-zine Progetto Babele, redattore di Viadellebelledonne (blog letterario fra i più seguiti in Italia).