«Credi nella magia?». È la prima frase che Carlos Santana ha rivolto a Rudy Valdez, prima di acconsentire a collaborare al film documentario prodotto da Ron Howard e Brian Grazer (la premiata coppia di The Beatles: Eight Days A Week e di Pavarotti) che a inizio settimana è circolato per 3 giorni nei cinema italiani. È anche la chiave di lettura di Carlos. Il viaggio di Santana, una pellicola di cui il musicista messicano non è solo il protagonista ma anche una sorta di co-regista sempre in controllo della situazione: come spiega lo stesso Valdez nel prologo che introduce la proiezione, il filmmaker newyorkese ha voluto lasciargli ruota libera montando parole e immagini in modo da assecondare la sua visione della storia. Ne emerge, in 1 ora e ½ circa, il ritratto di un uomo che ha una concezione magica – appunto – dell’esistenza, l’idea dell’arte e della musica come strumento di connessione con i suoi simili ma anche con il divino e con la dimensione ultraterrena.

Carlos a torso nudo che in casa imbraccia la chitarra elettrica e si mette a improvvisare sul ritmo di una batteria elettronica (immagini sgranate e suggestive da film casalingo e amatoriale, assolutamente inedite); che conversa seduto intorno a un tavolo con le sorelle e con la seconda moglie e batterista Cindy Blackman; che si offre alla macchina da presa di Valdez seduto di notte davanti a un falò, sono l’ossatura di un racconto che parte ovviamente da lontano: dall’infanzia e dall’adolescenza vissute in povertà prima ad Autlán de Navarro e poi a Tijuana in Messico, in una famiglia numerosa con un padre violinista che lo ingaggia nel suo gruppo mariachi e gli insegna a toccare con il suo strumento il cuore della gente e una madre risoluta e pragmatica: lui donnaiolo e fuggiasco da casa in un momento di crisi, lei a volte dura con i figli e a suo dire non abbastanza protettiva (nel film Santana confessa di essere stato insidiato a lungo da un molestatore sessuale).

Prevedibilmente, il trasferimento a San Francisco quando sta per esplodere la Summer of Love è uno dei capitoli più vibranti della narrazione. È il momento della “rivoluzione delle anime ”, del Fillmore West con la musica dei Grateful Dead e di Janis Joplin tra odore d’erba e di patchouli, dell’incontro con il leggendario promoter Bill Graham, che individuata in quella che allora si chiamava ancora Santana Blues Band «la perfetta fusione tra B.B. King e Tito Puente» la prende sotto la sua ala protettrice e la prepara, allenando i musicisti come fossero dei pugili, all’esibizione a Woodstock nell’agosto del 1969, quando ancora il gruppo non ha un disco nei negozi, quella folla sterminata ignora chi sia e Carlos stesso, in pieno trip per una pasticca passatagli da Jerry Garcia, deve lottare con una chitarra che gli sguscia tra le mani come un serpente elettrico (imparerà a domarlo completamente, sostiene, solo molti anni dopo).

Non sorprende che Santana lo identifichi come il momento cruciale della sua carriera insieme all’album Supernatural che 30 anni dopo lo rilancerà in testa alle classifiche grazie anche alle geniali intuizioni di marketing del discografico Clive Davis: l’uomo capace da sempre di tradurre il suo linguaggio misticoÈ arrivato il momento di riconnettere le molecole alla luce») in azioni concrete e in strategie commerciali («Intende dire che vuole fare un disco che possa piacere alle radio»). Graham (scomparso in un incidente in elicottero nel 1991) e Davis, oggi 91enne, testimoniano di persona con interviste d’archivio o inedite i loro incontri con il musicista; nei titoli di coda e nei ringraziamenti finali Santana li cita come le figure essenziali della sua vita artistica assieme al compianto percussionista Armando Peraza, nella sua band dal 1972 al 1990: che però si vede di sfuggita, così come la maggior parte degli altri, innumerevoli musicisti, produttori e fonici con cui ha collaborato, nessuno dei quali (unica eccezione un breve intervento del cantante Rob Thomas) è stato interpellato per offrire la sua versione della storia.

È la pecca maggiore di un film prezioso per la ricerca e la riproposizione di materiali mai visti prima, ma che spesso si concentra più sul Santana privato e familiare che sul musicista. Le sequenze in studio e sul palco, i frammenti di performance trascinanti, servono anche a documentarne l’evoluzione personale, il cambio di passo dopo un periodo di sbandamento in cui lo stile di vita rock and roll, il sesso, le droghe, gli agi e il lusso finirono per sgretolare la band degli esordi e Carlos capì di dover decidere tra due opzioni («L’eroina o la spiritualità») cercando l’illuminazione attraverso il jazz e gli insegnamenti del guru indiano Sri Chinmoy, mentre anche il suo aspetto esteriore segnalava il profondo cambiamento interiore: capelli corti, abiti bianchi e meditazione pre concerto al posto dei lunghi riccioli ribelli, delle smorfie e dei vestiti da hippie; una vita disciplinata e regolare in luogo del disordine frenetico del rock stardom.

Carlos è una storia di riscatto sociale (dal ghetto di Tijuana all’esistenza agiata di oggi); di promesse mantenute (il 1° assegno incassato con le royalty e consegnato alla madre per permetterle di comprarsi gli elettrodomestici e una casa nuova); di riconciliazione (con 2 genitori amati e amorevoli, ma con cui non sono mancate le incomprensioni); di legami e crisi sentimentali (i figli, il divorzio dalla prima moglie e un 2° matrimonio); di emancipazione spirituale; di obiettivi raggiunti (il desiderio di emulare i suoi idoli B.B. King, John Coltrane e Jimi Hendrix, la cui effigie porta sulla t-shirt durante una delle interviste); di resurrezione artistica dopo i grandi successi mondiali e gli anni dell’oblìo.

Nel plot la musica appare come un mezzo più che come un fineÈ ciò che faccio, non quel che sono», conferma il musicista). Il veicolo a bordo di cui Santana è salito per incamminarsi nel suo viaggio di scoperta, l’ispirazione che trasforma le note della sua chitarra in suoni che anelano a vibrare in consonanza con il cosmo. Il protagonista, a 76 anni ancora in splendida forma, ha carisma, profondità di pensiero, capacità di articolare discorsi non banali con un linguaggio ricco e immaginifico: cosicché Carlos assomiglia un autoritratto, a un’autobiografia, a cui Valdez presta la sua sapienza registica evitando di essere intrusivo e di imporsi. È la narrazione di una storia straordinaria vissuta a cavallo tra epoche e realtà socioculturali completamente diverse tra loro. Peccato non aver utilizzato più voci, più punti di vista, più sfumature, più chiaroscuri per raccontarla.