Ho avuto il privilegio d’intervistarlo qui a Milano nel 2004. Abbiamo parlato di teatro, Parigi, Europa. Di lui ricordo soprattutto la grande umiltà e quel suo dialogare sottovoce quasi a non voler disturbare. Carlo Delle Piane è scomparso a 83 anni dopo aver recitato in 110 film incluso Ti amo Maria, del 1997, di cui è stato anche regista. Romano, sbrigativamente (e da troppi) definito caratterista, nel 1947 debutta con Cuore quando sta ancora frequentando la scuola e da qui in avanti, per tutti gli anni 50, recita accanto ai più noti attori italiani vestendo i panni del ragazzetto ossuto e impertinente in una Roma neorealista da poco uscita dalla guerra. Nel 1951 dà il volto a Pecorino, il giovane figlio di Aldo Fabrizi nel film La famiglia Passaguai; e a Libero Esposito in Guardie e ladri; nel 1954 è Romolo Pellacchioni detto “Cicalone” in Un americano a Roma con Alberto Sordi.
A valorizzarne dal 1977 il talento è il regista Pupi Avati che lo accoglie in vari film tra cui Tutti defunti… tranne i morti, Una gita scolastica, Festa di laurea e I cavalieri che fecero l’impresa. Sempre diretto da Avati, Delle Piane si aggiudica nel 1986 alla Mostra del Cinema di Venezia il Leone d’Oro come miglior attore protagonista in Regalo di Natale; il cui spin-off, Chi salverà le rose? scritto e diretto da Cesare Furesi, lo rivede nel 2017 nel ruolo dell’Avvocato Santelia. È il suo ultimo film.
La Parigi fine ‘800, bella e dannata
Con quella sua faccia picassiana appoggiata su un’impeccabile recitazione, Carlo Delle Piane mette in scena una nostalgica e prorompente Europa che rivolge uno sguardo alla Parigi di fine ‘800. Nello spettacolo teatrale Al Moulin Rouge con Toulouse-Lautrec scritto da Sabrina Negri e diretto da Walter Manfrè, l’ex ragazzetto di una Cinecittà in bianco e nero s’immedesima nello spirito geniale del pittore che fu caustico testimone di quell’epoca contraddittoria.
«Henri de Toulouse-Lautrec è un personaggio sublime, maledetto e a suo modo rivoluzionario che ho voluto raccontare (più che interpretare alla lettera) con apparente distacco. Tant’è che non recito in ginocchio per sembrare un nano come fece nel 1952 José Ferrer in Moulin Rouge né mi trucco per diminuirmi l’età, giacchè Lautrec morì a 37 anni. Semmai lo prendo per mano come fosse un compagno di viaggio e mi metto ad attraversare con lui la bolgia di rumori, musiche, voci del tabarin dando spazio ai suoi rapporti con Lily, amante tradita e traditrice; e con Aristide, saggio e fatuo amico».
Sullo sfondo c’è la Parigi fin de siècle, mefistofelico incrocio d’arte e trasgressioni fatali…
«Una porzione d’inferno che trabocca di alcol e droghe, chiusa a chiave nel turbinìo danzante del Moulin Rouge (paradisiaco solo per chi lo frequentava) da cui il pittore vorrebbe fuggire ma dove cerca, per la legge dei contrasti, la purezza e l’innocenza. Un candore ossessivamente spiato nella squallida routine delle prostitute. Di quella Parigi mi piacciono nel bene e nel male gli opposti, le scintillanti luci del palcoscenico, il caotico frastuono delle parole che si accavallano. Il suo cuore scandaloso, chiamato Moulin Rouge, è come una discoteca dove la droga c’è e resiste, dove spesso l’amore è uno straccio consunto e la solitudine una misera certezza».
Dopo questa esperienza teatrale Parigi val bene un viaggio?
«Spero al più presto. Ho amici che ci vivono e me la descrivono bella e romantica: in particolare di notte, quando è avvolta da un firmamento di luci. Mi capitò di visitarla parecchi anni fa e ricordo gli ariosi boulevard, l’eleganza dei suoi palazzi al Trocadéro, place de la Concorde e l’Arc de Triomphe. Quando la rivedrò, il mio primo pensiero sarà raggiungere Pigalle e soffermarmi di fronte al Moulin Rouge ripensando a Lautrec, anche se mi rendo conto che i tempi non sono più quelli della Belle Époque: scomparsi gli atelier dei pittori, i sexy shop hanno preso il posto dei caffè letterari e non si respira più l’atmosfera un po’ peccaminosa del can-can».
Quando ha viaggiato per la prima volta in Europa?
«Risaliamo ancora alla notte dei tempi! Mi avventurai in Ungheria alla guida di una Mini Cooper: dovevo andare a Budapest per girare un film e da Roma raggiunsi Vienna. Poi andai verso est percorrendo strade solitarie e mi fermai a Budapest per un paio di mesi di set cinematografico scoprendo una capitale intrigante e aristocratica. Un’altra metropoli che mi ha affascinato è Madrid, con certi scorci indimenticabili come il paseo del Prado, Puerta del Sol, la Gran Via dei palazzi primi ‘900…».
A quali nomi del cinema e della letteratura europei si sente più legato?
«Ai fratelli Lumière e alla Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard e Claude Chabrol; a Luigi Pirandello e al Cesare Pavese che scrisse Il mestiere di vivere».
Quando la rivedremo sul grande schermo?
«Nel film Nessun Messaggio in segreteria di Paolo Genovese e Luca Miniero, dove interpreto un pensionato minacciato di sfratto; e in un episodio di Tickets, girato da Ermanno Olmi (gli altri 2 sono diretti da Ken Loach e Abbas Kiarostami), nel ruolo di un farmacologo a bordo di un treno che fra sogno e realtà scrive e poi cancella una lettera d’amore».
Foto: Carlo Delle Piane con Totò in Guardie e ladri (1951)
Con Alberto Sordi in Un americano a Roma (1956)
Sul set di Regalo di Natale (1986) con Alessandro Haber, Diego Abatantuono, Gianni Cavina e George Eastman (Luigi Montefiori)