«Avevo più o meno 13 anni. Mio fratello era molto bravo a dipingere, cosicchè i miei genitori hanno pensato che scattare foto mi avrebbe reso creativo quanto lui. E a 14 anni mi hanno regalato la prima macchina fotografica».
Quando ti sei reso conto che sarebbe diventata la tua professione?
«Nel momento in cui ho maneggiato per la prima volta quella macchina sapevo che avrei fatto il fotografo, anche se non avevo la minima idea di cosa in realtà significasse. Mio padre era un collezionista d’arte, il che mi ha dato l’opportunità di crescere con l’arte letteralmente appesa alle pareti (poca fotografia, a essere sinceri: solo una stampa di Werner Bischof che ora fa bella mostra di sé nel mio appartamento…). Al liceo, era già evidente che sarebbe stato il mio percorso di vita. Eppure credevo fosse impossibile documentare “il mondo” senza comprenderlo adeguatamente. Perciò ho studiato storia per 2 anni prima di indirizzarmi, a New York, a un corso fotografico. Avevo 20 anni».
Come hai scoperto Keith Haring?
«Dopo che mio fratello si era procurato un poster realizzato da lui per promozionare un concorso hip-hop. Mi è bastato dargli un’occhiata per diventare un suo fan. A quel punto, volevo approfondire “visibilmente” la sua arte ma a Parigi, nell’86-’87, in giro ce n’era davvero poca. Perciò, al mio tredicesimo compleanno, mio padre mi ha portato a Knokke le Zoute, in Belgio, dove Haring stava allestendo una mostra. E il sogno di poterlo incontrare si è trasformato in realtà».
Quello nel suo studio è stato il tuo unico servizio fotografico su di lui?
«Ne avevo realizzati altri 2, a Parigi e a New York, ma quello “shooting” è stata l’unica occasione di fotografarlo mentre dipingeva».
Cosa ricordi con più piacere di quel 30 ottobre 1988?
«L’emozione, da ragazzo e da fan, nel vedere il suo studio: talmente pieno di oggetti da sembrare un negozio di giocattoli. C’erano cose realizzate da lui, sia per il Pop Shop sia in termini puramente artistici. C’erano dappertutto modelli in scala ridotta delle sue sculture, posters, oggetti raccolti dalla strada, polaroids che lo vedevano accanto a Madonna e a Michael Jackson… Non potevo crederci: Keith stava creando arte dinnanzi ai miei occhi. Era lì, in piedi, di fronte al foglio bianco. Poi, magicamente, ogni immagine ha iniziato a prendere forma per la gioia mia e della mia macchina fotografica».
Che atmosfera si respirava?
«Era estremamente concentrato su ciò che stava dipingendo. E molto silenzioso. Quando io e mio padre siamo entrati nello studio, la “boombox” diffondeva canzoni di Rita Mitsouko. Ma nell’istante in cui ha cominciato a dipingere, il pop ha ceduto il passo alla musica classica. Gli ho parlato solo quando si muoveva da una tela all’altra, dandogli una personale interpretazione di quello che stava facendo. E lui mi ha spiegato cosa realmente intendesse fare con quei dipinti».
Haring non solo ti ha definito la sua versione più piccola e più giovane, ma un incrocio fra lui e il canarino Titti…
«Quando l’ho letto per la prima volta nei suoi Diari mi sono emozionato. Pochi anni dopo la sua morte sono andato nel suo Pop Shop newyorkese, in Lafayette Street. Scorrendo l’indice alla fine del libro, ho trovato la pagina dove raccontava il nostro incontro. La ragazza del negozio mi ha detto: “Sei contento di quello che hai letto? Parecchie persone citate da Haring si sono infuriate…”. Io, al contrario, ero al colmo della felicità».
Cosa ricordi con più affetto di Keith?
«La grande generosità. Il giorno dopo il servizio fotografico mi ha accompagnato al Pop Shop dicendomi: “Puoi prendere quello che vuoi”. Cosa che ovviamente ho fatto! Indosso ancora le t-shirts di quella memorabile giornata… Regalava qualcosa a tutti: posters, spillette (ne aveva sempre piene le tasche), disegni autografati… Firmava libri, magliette, pantaloni… Ogni mese mi spediva i prodotti dello store ben sapendo quanto mi piacessero e fosse impossibile trovarli a Parigi. Ricordo un pacchetto con sopra scritto “Questa volta ne ho messi un po’ di più, così potrai condividerli con tuo fratello”. Ma oltre a regalare un mucchio di cose, Keith si è dimostrato generoso nel suo impegno per le cause importanti: contro il nucleare, l’Aids, l’apartheid in Sudafrica, la brutalità della polizia. Temi purtroppo ancora attuali, a 23 anni dalla sua morte…».
«Il fatto che le sue opere vengano spesso scambiate per semplici o infantili, è la miglior chiave di lettura per comprenderne l’enorme successo. Il tratto pittorico, effettivamente, rende i suoi lavori facili da approcciare e da guardare. Ma al di là della semplicità formale c’è la complessità del messaggio, l’essenza delle sue battaglie sociopolitiche. Sono inoltre convinto che la sua arte non ha età per il semplice motivo che i suoi messaggi non sono espliciti, ma il più delle volte metaforici. Lasciano cioè spazio a ogni interpretazione e perciò non invecchiano. Il loro significato non si esaurisce».
«Pittori, coreografi, musicisti e architetti che mi hanno dato l’opportunità di collaborare con la rivista francese L’Oeil. Penso a Jean Nouvel, Gérard Garouste, Erró, Pierre Soulages».
«Il mio lavoro è perlopiù documentaristico. Mi concentro sulle questioni sociali. Il libro Face à la vie, ad esempio, è il risultato di 3 anni di reportage in un reparto oncologico pediatrico vicino a Parigi. In un certo senso, ci vedo un legame col rapporto che aveva Keith nei riguardi dell’infanzia bisognosa d’aiuto. Ed è la ragion d’essere della Keith Haring Foundation, che finanzia progetti per curare i bimbi malati. Tutto ciò dimostra quanta importanza abbia avuto Haring nella mia vita».
Foto: © Baptiste Lignel