E intanto Woody Allen non sbaglia (eccetto il vanesio To Rome With Love del 2012) un film. Anche se il film in questione, il 49°, ha finito di girarlo 2 anni fa ma la sfiga (che ci vede notoriamente benissimo) ha voluto che proprio quello spicchio autunnale del 2017 abbia visto nascere il movimento #MeToo in seguito alle accuse di molestie sessuali formulate da alcune attrici nei confronti del produttore cinematografico Harvey Weinstein. Sicchè Woody, in quel clima da caccia alle streghe che in poche settimane passava dal sacrosanto caso Weinstein al n’do cojo cojo, s’è trovato a dover schivare palettate di fango causa riavvolgimento rapido delle accuse di sexual harrassment da parte della figlia adottiva Dylan (accuse peraltro già note, datate 1992 e mai sfociate in un’incriminazione). Risultato: gli Amazon Studios cancellano l’uscita di A Rainy Day In New York e annullano il contratto che li lega al regista. Da qui la fatal reazione a catena della serie “Chi, io? Non ho mai recitato per Woody Allen!”: cioè un codazzo di attrici e attori col capo cosparso di cenere incluso Timothée Chalamet, protagonista dell’erased movie. Senonchè 68.000.000 di $ dopo (a tanto ammontava la causa intentata da Allen versus Amazon) le 2 parti raggiungono un accordo: stralcio del contratto e via libera alla distribuzione del film, America esclusa.
Dunque eccolo, Un giorno di pioggia a New York: amabile, frizzante, ridanciana romantic comedy come da tempo non succedeva in casa Allen. Io e Annie (1977) e Manhattan (1979) restano com’è ovvio capolavori insuperabili; i confronti (esclusi i film ambientati nel passato), vanno semmai fatti con Tutti dicono I Love You (1996), Anything Else (2003) e Basta che funzioni (2009). Bene: secondo noi Un giorno di pioggia a New York straccia Anything Else, batte al tie break Tutti dicono I Love You e se la gioca quantomeno alla pari con Basta che funzioni. Ma andiamo al nocciolo della storia ambientata in una Manhattan sotto il diluvio universale, impeccabilmente fotografata da Vittorio Storaro e a 40 anni di distanza sempre, comunque, allenianamente “a place to be”.
Il newyorkese che si chiama Gatsby come il romanzo di Francis Scott Fitzgerald (Timothée Chalamet, lo ricordiamo volentieri in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino) e Ashleigh (Elle Fanning), girlfriend dell’Arizona, pianificano un romantico fine settimana nella Big Apple giacchè lei ha l’irripetibile occasione d’intervistare il suo regista preferito, Roland Pollard (Liev Shreiber) per il giornale del college. Gatsby non vede l’ora di farle scoprire i suoi luoghi preferiti e chi se ne importa se la data dell’intervista coincide con un party organizzato da sua madre (Cherry Jones)… Lui di sicuro non ci andrà, visti i complicati rapporti coi facoltosi genitori che nutrono nei suoi riguardi eccessive aspettative. E sempre lui, di riflesso, ha l’abitudine di giocare d’azzardo con grande nonchalance, mentre papà e mamma identificano il denaro come segno inequivocabile di uno status sociale.
Purtroppo, però, la giornata da trascorrere con l’amata va a farsi benedire in un amen: lasciata da Gatsby all’Hotel Soho con il proposito di rivedersi a pranzo una volta conclusa l’intervista, Ashleigh non fa in tempo a rivolgere la prima domanda a Pollard che questi le propone uno scoop giornalistico: non ha più fiducia in se stesso ed è pronto a piantare in asso le riprese del prossimo film. Ashleigh, da vera fan, lo esorta a non mollare e il regista, impressionato da tanta, disinteressata fiducia, la invita alla proiezione di un work-in-progress della sua pellicola. Da qui in avanti, i 2 fidanzatini trascorreranno il resto della giornata ognuno per conto proprio, imbattendosi in una serie di bizzarre avventure e incontri casuali come quello che capita a Gatsby, al Greenwich Village, quando un ex compagno di scuola che sta girando un cortometraggio fa di tutto per convincerlo a interpretare lì, su 2 piedi, un piccolo ruolo: dovrà baciare appassionatamente una ragazza in automobile. Quella ragazza (guarda tu il destino) è l’intraprendente Chan (Selena Gomez) sorella minore di Amy, la sua ex fidanzata.
Commedia vieppiù degli equivoci che non sarebbe affatto dispiaciuta a Georges Feydeau e al William Shakespeare di Molto rumore per nulla, Un giorno di pioggia a New York ha nel trio di millennials i suoi innegabili punti di forza, non lesina colpi di scena (come l’inaspettata rivelazione della madre di Gatsby, in un monologo a dir poco perfetto) e dispensa l’irresistibile comicità alleniana (e non solo quella yiddish). In una scena ambientata nell’appartamento di Chan prima di raggiungere insieme il Metropolitan Museum of Art (nota bene: le relazioni sentimentali e non, nei musei, sono una costante nel cinema di Woody Allen: da Provaci ancora, Sam a Match Point, passando per Manhattan) Gatsby si mette a intonare al pianoforte Everything Happens To Me, standard del 1940, non solo alludendo alla sfortuna piovutagli letteralmente addosso in quella giornata che credeva speciale, ma ribadendo il suo sentirsi fuori dal tempo: nel vestire sgualcitamente in tweed; appassionarsi di porzioni newyorkesi dove a sopravvivere è rimasto il vintage; frequentare il Village; crogiolarsi nel romanticismo uggioso; ascoltare il jazz e Cole Porter; acquistare addirittura un bocchino tentando (invano) di tamponare il precoce tabagismo; magari emozionarsi davanti ai bianchi e neri di Weegee, fotoreporter di nera. In poche parole: comportarsi da tipico antieroe alleniano, fatto e finito.
La bionda Ashleigh (impersonata dalla Fanning in modo sublime e convincente) è al contrario del tormentato Gatsby serena, spensierata, genuinamente provinciale. Desiderosa di far carriera come giornalista, non solo asseconda le paturnie del regista Pollard e i complessi d’inferiorità del suo sceneggiatore Ted Davidoff (Jude Law), ma quando incontra l’attore sudamericano Francisco Vega (Diego Luna), “la cosa più favolosa dopo la pillola del giorno dopo” in crisi da ruolo del rubacuori ma sufficientemente attizzato nei suoi confronti, non esita a farsi passare dai media come suo ultimo flirt. Infine Chan, tipa assai sveglia e altrettanto smorfiosa, in particolare quando prende in giro Gatsby accusandolo di non impegnarsi a sufficienza in quel bacio cinematografico seminascosto dietro al parabrezza. Ma poi sincera, nell’ammettere di aver sempre avuto una cotta per lui. E romantica, quando avrebbe preferito che Gatsby passeggiasse insieme a lei, quella volta al Central Park sotto la pioggia, anziché con sua sorella Amy.
«La città ha un piano tutto suo», ammette Gatsby a un certo punto della storia. Significa che il tempo ti congiura contro, credi di riuscire a manipolarlo (o almeno controllarlo un po’) e poi ti devi arrendere all’Happy End di ogni commedia romantica che si rispetti. Ma non ve lo sveliamo, il lieto fine, per non togliervi il gusto della sorpresa.
Foto: © Lucky Red