Il 2 dicembre 1999, all’Hotel Principe di Savoia di Milano, ho avuto il privilegio d’intervistare Ryuichi Sakamoto in occasione dell’uscita di 2 album: BTTB (Back To The Basic) e Cinemage. Voglio rendere omaggio, trascrivendo le parole e le emozioni di quell’incontro memorabile, a colui che si è rivelato fra i massimi sperimentatori del ‘900.
C’è una dichiarazione, in particolare, che Ryuichi Sakamoto ama ripetere per potersi descrivere nel miglior modo possibile: «Il mio cervello racchiude una specie di mappa geografica che mi permette di cogliere similitudini fra culture che ognuno di noi, a un primo frettoloso esame, considera antitetiche. Trovo per esempio che il pop giapponese somigli alla musica araba nell’intonazione vocale e nel vibrato; e nella mia mente Bali non è poi così distante da New York».
Classe 1952, diploma in composizione alla Tokyo National University of Fine Arts and Music, Sakamoto è fra i più convinti sostenitori del cosiddetto “melting pot ” sonoro, avendo elaborato con la Yellow Magic Orchestra elettronica in equilibrio fra il Sol Levante e i Kraftwerk; avendo frullato neo tropicalismo e scorie nipponiche con l’album Smoocky (1997); avendo amalgamato tradizione sinfonica e alta tecnologia con Discord (1998).
Ma non basta. Accanto a colui che potremmo definire “deflettore ” di ogni possibile new wave musicale, agisce l’altro Sakamoto: quello meno roboante e più discreto che ha composto colonne sonore come The Last Emperor (1987), Wuthering Heights (1992) e Little Buddha (1993), esternando la passione per Claude Debussy ed Erik Satie, per il minimalismo e l’ambient music. A quest’ultima si riferiscono i nuovi lavori discografici intitolati BTTB (Back To The Basic) e Cinemage: il 1° include brani per pianoforte; il 2° sviscera il meglio in tema di musica da film.
Com’è nato Back To The Basic?
«Dal mio desiderio di realizzare un album che fosse in grado di illustrare agli ascoltatori le svariate possibilità di utilizzo del pianoforte. Le composizioni Prelude e Uetax, per esempio, le ho suonate posizionando gomme da cancellare fra una corda e l’altra dello strumento. In questo modo ho ottenuto un suono per molti versi simile alla gamelan music prodotta dalle orchestre balinesi. In Put Your Hands Up, invece, ho fatto in modo che il piano potesse essere un incrocio fra la musica celtica e le canzoni kobushi della tradizione nipponica».
Un altro brano della raccolta, Energy Flow, ha raggiunto la vetta della classifica giapponese dei singoli…
«Non era mai successo che una mia composizione pianistica entrasse in hit parade. Ma la ragione è semplice: Energy Flow è stata utilizzata per uno spot pubblicitario, ed è per questo motivo che ha agganciato il grande pubblico».
Tong Poo, invece, risale all’epoca della tua militanza nella Yellow Magic Orchestra.
«Faceva parte di Y.M.O., l’album con il quale debuttammo nel 1978. L’ho scelto perché si prestava più di altri a essere rielaborato al pianoforte».
Sembra quasi che con BTTB tu abbia deciso di rifugiarti nella purezza della musica eliminando ogni possibile sovrastruttura elettronica.
«Ho soprattutto coronato il sogno di riappropriarmi delle mie radici classiche: quand’ero un adolescente, mi esercitavo a suonare Johannes Brahms e Fryderyk Chopin; ed è là che ho voluto idealmente ritornare. Tengo inoltre a precisare che questo disco si è rivelato una sorta di esercizio preparatorio alla stesura di Life, la mia prima opera teatrale».
Musica e immagini rappresentano una costante dei tuoi concerti…
«Senza dubbio. La multimedialità mi affascina da sempre: nel 1997 ho dato vita a performance che utilizzavano in simultanea un’orchestra sinfonica, Internet e la computer graphic. L’anno successivo mi sono invece esibito con l’artista multimediale Toshio Iwai: insieme abbiamo allestito Music Plays Images x Images Play Music, impegnandoci a raggiungere l’ideale punto di fusione fra improvvisazione pianistica e dimensione visuale».
Cosa dobbiamo attenderci dal vivo?
«Il nucleo sarà il repertorio di BTTB, ma mi esibirò anche con l’accompagnamento di una sezione d’archi e in veste di DJ manipolando, tagliando e assemblando pezzi di varie estrazioni musicali. È un’idea nata anch’essa durante i concerti del 1997 mentre l’orchestra eseguiva Anger, 1 dei 4 movimenti che poi sono confluiti nell’album».