Come sopravvivere al punk, alla new wave e agli anni 80? È una domanda che tutti i protagonisti del rock dei 60s e dei 70s (cantautori di protesta e revivalisti blues, figli dei fiori e proggers, cantanti in lustrini glam e guitar heroes innamorati dei loro assoli) hanno dovuto porsi. Compreso Roger Chapman, il ruggente — in tutti i sensi — vocalist dei Family e poi degli Streetwalkers, sempre un passo di lato al mainstream e ai vertici delle classifiche cui l’etichetta Esoteric dedica oggi un bel box formato “conchiglia” contenente 5 Cd che lo fotografa nel triennio 1979-1981 proponendo versioni rimasterizzate degli album di studio Chappo e Mail Order Magic; e del disco dal vivo Live In Hamburg, più altro materiale del periodo, raro o inedito.

Lontanissimo dagli stereotipi del frontman che cantava testi fiabeschi o incomprensibili addobbato in sgargianti costumi di scena, Chapman non era un bersaglio naturale per i ragazzi londinesi con creste e spilloni che a fine 70 affollavano King’s Road; e che anzi, nel suo piglio di rocker da strada ruvido e senza fronzoli, potevano riconoscere un antesignano. Nelle note di copertina del cofanetto, lo stesso Roger confessa che qualche gruppo punk lo approcciò offrendogli un posto come cantante, mentre lui scansava le offerte di case discografiche che volevano farne un nuovo Joe Cocker o un nuovo Rod Stewart. Ci volle un incontro con il titolare di un’effimera etichetta indipendente, Chris Ewell della Acrobat, perché capisse di poter continuare a fare, nel 1979, quel che desiderava: un disco in cui ci fosse «un pizzico di Sun Records, un pizzico di gospel, un pizzico di country e un pizzico di r&b». Un intreccio denso e compatto di chitarre elettriche, basso, batteria, sax e pianoforte che il produttore David Courtney seppe coagulare in un sound tosto e squadrato, appena un po’ più “rotondo” e levigato di quello a cui il cantante di Leicester era abituato.

Roger Chapman

Anche per questo viene da chiedersi come mai, esclusi i Paesi di lingua tedesca che gli hanno sempre riservato un affetto speciale, il suo 1° album solista Chappo (che prendeva il titolo dal suo classico soprannome) all’epoca non fu un successo. Roger, che in copertina sfoggiava una tuta da lavoro rossa come a voler proclamare la sua immagine anti glamour e le sue origini proletarie, si proponeva per quel che era sempre stato: un vocalist dall’aspetto operaio come il protagonista di un film di Ken Loach, un cantante dalla voce torbata come un whisky di malto stagionato, caratterizzata in modo inconfondibile da quel vibrato squassante che alcuni detestavano e altri adoravano (incluso Peter Gabriel, che a lui ha dichiarato esplicitamente di essersi ispirato); e con l’istinto feroce di un felino predatore. Qui per la prima volta orfano del partner storico, il chitarrista John “Charley” Whitney coautore con lui di tante canzoni, sostituito da uno strumentista più incline al blues e decisamente più muscolare, l’eccellente Geoff Whitehorn che Roger aveva ascoltato in un disco dell’amico e vicino di casa Eric Burdon, già membro degli If e futuro Procol Harum a partire dai primi anni 90.

Ai Marquee Studios di Londra e agli Startling di Ascot di proprietà di Ringo Starr e prima ancora di John Lennon (che vi aveva registrato Imagine) li raggiunse uno stuolo di musicisti che includeva un altro ex Family, Poli Palmer, ai synth, l’armonicista Peter Hope-Evans, il veterano batterista Henry Spinetti e il percussionista storico di Elton John, Ray Cooper. Con loro Chapman metteva sul tappeto tutta la sua mercanzia migliore, tornando alla musica con cui era cresciuto: rock stonesiani e in odore di honky-tonk come Midnite Child; blues elettrici, rocciosi e taglienti come Moth To A Flame e Face Of Stone; pulsanti graffi funk come Who Pulled The Nite Down; l’hard rock che in Always Gotta Pay In The End incontrava i Meters e New Orleans; gli accenti gospel di Don’t Give Up; il pathos di ballate come Pills (una outtake del periodo Streetwalkers firmata con Whitney) e Shape Of Things (non quella degli Yardbirds), una bella e bluesata versione da night club di Hang On To A Dream di Tim Hardin e una scoppiettante cover di I Keep Forgettin’, classico rhythm & blues che la magica coppia Lieber & Stoller aveva scritto e prodotto per Chuck Jackson nel 1962.

Gran parte di quel repertorio compare, in versioni più graffianti, energiche e sanguigne, nel Live In Hamburg registrato nel mese di agosto del 1979: un party album che confermava in Chapman un formidabile animale da palcoscenico, un turbine di sfrontatezza e di passione. Short List era il titolo di un nuovo e accattivante r&b subito assurto a sigla ufficiale di un gruppo quasi omonimo, gli Shortlist, che accanto a Whitehorn schierava il crimsoniano Mel Collins al sassofono, Tim Hinkley alle tastiere, Jerome Rimson al basso, Leonard Stretching alla batteria e 2 coriste: con loro, Roger accendeva la miccia esaltandosi anche in spiritate versioni di Talking About You (Going Down) di Chuck Berry, del classico di Muddy Waters, I’m Your Hoochie Coochie Man e di Let’s Spend The Night Together dei Rolling Stones dov’era il sax, contrappuntato dai cori femminili, a eseguire il celeberrimo riff in una chiave decisamente festaiola e con una bella carica di adrenalina (tra i bonus del cofanetto figura anche la versione di studio pubblicata come lato A di un 45 giri).

Non sono meno trascinanti, nella loro miscela esplosiva di roots music bianca e (soprattutto) nera, i concerti inediti che rappresentano il plus del box set: un’esibizione nella stessa Markthalle di Amburgo dell’anno successivo, con gli Shortlist ampiamente rimaneggiati (Steve Simpson al violino e alla seconda chitarra, Nick Pentelow al posto di Collins e Palmer ai synth e ai vibrafoni) e un divertente finale, Jesus And The Devil, in cui una giga folk sfocia in una coda a cappella; e soprattutto una breve ma irresistibile performance aggiunta nel 2° Cd alle alternate versions dei brani di Chappo e registrata nell’ottobre del 1979 al Paris Theatre di Londra per il programma BBC Radio OneIn Concert”, con un piccolo riassunto di storia blues/r&b (Bo Diddley, I Just Want To Make Love To You, Hoochie Coochie Man) piazzato in coda a una travolgente Can’t Come In (stavolta alla chitarra c’è Clem Clempson, ex Colosseum e Humble Pie; e al sax Raphael Ravenscroft, l’anno prima esecutore dell’iconico riff di Baker Street di Gerry Rafferty).

Family

Non bastasse, Esoteric ripresenta anche 1 disco da tempo fuori catalogo e ingiustamente sottovalutato come Mail Order Magic, pubblicato nel 1980 dalla tedesca Line e registrato con un team che accanto ai soliti Whitehorn, Palmer, Hinckley e Rimson includeva anche l’altro ex Family e jolly del prog inglese John Wetton; e il batterista della Experience di Jimi Hendrix, Mitch Mitchell. Qui il suono si fa più duro, più rock ma anche più avventuroso, fra i ronzanti loop sintetici di Unknown Soldier, l’hard funk di Ducking Down e il riff chitarristico raddoppiato di Higher Ground, mentre la title track sfoggia una rilassatezza country blues degna di J.J. Cale. Nella tesa He Was, She Was Chapman indossa i panni di diversi personaggi; e in Barman, riporta in vita il protagonista di Sat’dy Barfly dei Family sostituendone il festoso umore alcolico con un mood decisamente più malinconico.

Quell’album consolidò il suo status di culto in Germania, ma non in patria: Chapman non se ne fece un cruccio e continuò imperterrito per la sua strada, sfornando un’altra quindicina di album di studio e diversi live; orchestrando fra il 2013 e il 2016 diverse reunion (parziali) dei Family e tornando di recente, con Life In The Pond (ancora con gli amici Palmer e Whitehorn e di nuovo su un’etichetta tedesca, la Ruf Records), a raccogliere attenzioni, elogi e recensioni positive. Moth To A Flame ci ricorda gli inizi di questa sua terza vita artistica, che “Chappo” (80 anni compiuti) vive tutt’oggi con testarda cocciutaggine, una grinta invidiabile e quell’aria di sano, sfacciato menefreghismo di chi nel suo mestiere non ha mai voluto scendere a compromessi.