Un quartetto di “giovani leoni” della scena newyorkese si esibisce sul prestigioso palco del Village Vanguard, il club che ha visto transitare la storia del grande jazz, dal dopoguerra a oggi. Il sassofonista, Chris Potter, ha assemblato un quartetto semplicemente straordinario con Adam Rogers alla chitarra, Craig Taborn al Fender Rhodes e tastiere, Nate Smith alla batteria. Quest’ultimo sarà l’autentica rivelazione, e di lui si comincerà a parlare in termini entusiastici dopo che il suo precedente leader, tale Dave Holland, ne ha tessuto gli elogi pronosticandogli un radioso futuro. Da allora, di strada, Nate ne ha percorsa tanta: suonando con i più bei nomi del jazz contemporaneo e fornendo la sua finissima arte percussiva a progetti che sono diventati album fondamentali.

Il drummer nasce a Chesapeake, in Virginia, lontano dai centri vitali dove nasce e si sviluppa la Grande Musica Nera. L’educazione musicale classica, gli consente di avere ampio spettro sulla percussione e la sua funzione nella musica. Viene notato da Betty Carter (cantante che ha scoperto svariati talenti) e viene ingaggiato a soli 16 anni nel suo quartetto. Da allora la sua è una continua ascesa che lo porterà a cofirmare un brano con Michael Jackson: Heaven Can Wait, che lo proietta fin da subito nell’Olimpo dei grandi autori di canzoni pop. Potrebbe sfruttare l’esordio fulminante, ma le sue radici sono nel jazz sebbene tutta la musica nera (soul, funk, hip hop, rap) faccia parte del suo bagaglio culturale.

Nate Smith
© Laura Hanifin

Dalla sua batteria partono le indicazioni per una costruzione musicale che al giorno d’oggi ha ben pochi eguali. Vengono tessuti ritmi che spaziano in ogni ambito musicale, dal blues rurale alle ultime tendenze minimaliste della musica contemporanea di derivazione classica, il tutto filtrato da un finissimo gusto personale e un invidiabile senso della misura, degli spazi e delle dinamiche che rende Nate Smith un compositore che ha fatto scuola, influenzando la nuova generazione di talenti afroamericani che sta segnando la nuova via del jazz. Da Joel Ross a Immanuel Wilkins, da Michael Mayo a Jaleel Shaw, tutti pagano un tributo al suo talento visionario e innovativo.

La cover dell’album See The Birds

Musicista a 360° ancor prima che batterista, Nate fonda la sua musica su una “fusione“, una miscela sapiente di ingredienti che attingono sì alla tradizione, ma che guardano al futuro. Non è un caso che nella sua musica si ritaglino ampi spazi l’hip hop e la spoken word in cui il testo, spesso drammatico e basato sulle vicende dell’afroamericano di oggi, fanno da contorno a una musica intensa, vibrante, ipnotica e travolgente che nell’improvvisazione trova il suo ideale sbocco. Tutti i musicisti concorrono alla creazione di un’atmosfera che via via si fa più fluida e più liquida, in cui gli elementi si sciolgono per creare un magma sonoro da cui emerge il solista di turno che svetta perentorio.

Già nell’album Postcards From Everywhere (2017) dove si avvaleva del supporto di Dave Holland al contrabbasso e di Lionel Loueke alla chitarra e vedeva ospite anche Chris Potter al sax tenore, Nate aveva gettato le basi per un’esplorazione sonora di tutta la cultura musicale afroamericana. Un excursus attraverso stili, derivazioni e idiomi musicali condotto con grande gusto e personalità lasciando ampio spazio agli interventi degli ospiti, che poteva contare su un nucleo, il suo gruppo Kinfolk, forte di talentuosi musicisti quali Fima Ephron (basso), Jeremy Most (chitarra), Kris Bowers (tastiere) e il già citato Jaleel Shaw ai sassofoni.

© Cory Dewald

Ciò che era in nuce in questo album trova piena realizzazione in See The Birds, disco che ci fa comprendere come la musica jazz possa evolversi alla velocità della luce e ancora sappia sorprenderci ed emozionarci se forte del talento di simili personalità. Nate porta a compimento il suo viaggio, lascia intravedere nuove sonorità e nuovi sviluppi sempre ben sostenuto dai Kinfolk, macchina perfetta e ben oliata. Dalla sua batteria Ludwig azzurra lancia provocazioni e segnali che accolti dalla band si trasformano in capolavori come Altitude, dove a brillare è il vibrafono di Joel Ross; oppure Rambo, in cui la chitarra  “lisergica” di Vernon Reid (proprio lui, il vecchio leader dei Living Colour) è mattatrice; o ancora Koyaki, che impreziosisce con la sua prestazione vocale Band Room Freestyle… e il futuro è già qui, oggi!

Nate Smith rappresenta dunque il must di una musica che sa sempre rinnovarsi, che non rifà mai il verso a se stessa, che ingloba elementi fra i più eterogenei per far nascere una “creatura” destinata a camminare da sola, che quando avrà tutti gli elementi necessari non potrà che spiccare il volo dandoci la percezione di ciò che musicalmente sta avvenendo negli Stati Uniti: «È bellissimo che da dove iniziano le mie bacchette possa finalmente nascere una nuova musica». Mai parole si sono rivelate più appropriate.