Nessuno ha mai scritto,
dipinto, scolpito,
modellato, costruito o
inventato se non per
uscire letteralmente
dall’Inferno.

( Antonin Artaud )

Cosa hanno in comune Antonin Artaud e Walter White, il protagonista principale della famosa serie televisiva Breaking Bad? Un fico secco si direbbe, se non fosse che personalmente ho intravisto uno straordinario seme comune che germoglia silente tra le righe del mio romanzo noir d’esordio intitolato Uno sciamano nel borgo (Porto Seguro Editore, 274 pagine, € 16.15).

Mi riferisco a quel senso di non appartenenza e alla liquida necessità e volontà di lasciarsi travolgere dal vortice di trasformazione e trasfigurazione che è anche trama e ordito del tappeto delle vicissitudini delle nostre esistenze.

Di Antonin Artaud si sa: la sua vicenda artistica ed esistenziale ci informa a sufficienza sulla sua volontà di agire il doppio che dimora in ognuno di noi. Di Walter White era mia intenzione cogliere e far emergere quel meccanismo psicologico che sta alla base del racconto cinematografico. Ricorderete, a riguardo, come il protagonista si trasforma, per necessità, da umile insegnante di chimica in una anonima scuola provinciale statunitense, in un efferato e potente produttore di droga sintetica tra i più ricercati.

Credo che si possa leggere quella fase di trasformazione come una metafora della crisi che può produrre tale psicodinamica nel profondo dei nostri istinti. Quello stesso dispositivo che vivranno ed agiranno, ognuno in maniera differente, i protagonisti del mio romanzo. Quella trasmutazione corporea di kafkiana granulosità non attesa, ma inevitabilmente accettata.

Ma andiamo con ordine, anche se il termine può suonare leggermente pleonastico. Chi vorrà cercare a tutti i costi una trama lineare e rigorosa, ricca di stereotipi del genere letterario, dovrà attendere che gli avvenimenti si succedano e intreccino tra di loro, lasciando che i protagonisti interagiscano inconsapevoli del destino avverso che li attenderà.

Degli stereotipi di genere – il noir ne è ricco – ho volutamente fatto a meno, riconoscendo tuttavia di articolare una narrazione ricca di suspence e dal colore nerissimo che sappia generare delle riflessioni sottotraccia. Quindi alludo a due vicende principali, due indagini giudiziarie indipendenti e con origini geografiche distanti tra loro.

Una nasce in Cina: il complotto sperimentato che fa a capo al sistema Big Pharma, vuole sviluppare e intensificare la diffusione illegale di prodotti farmaceutici a base oppioide in Occidente, avvalendosi delle radicate attività commerciali sul territorio. L’altra è legata a casa nostra in quel di Albenga, cittadina ligure anche interessata dagli attuali flussi migratori che, pur mettendo in campo da anni le migliori pratiche di integrazione razziale, sarà compromessa da un raccapricciante fatto di cronaca: sette immigrati nord africani verranno trovati, cadaveri decapitati, nell’entroterra savonese.

Due eventi che percorrendo binari paralleli si troveranno ad intrecciarsi in virtù delle gesta dei protagonisti. Uomini e donne dal passato comune, ma che le circostanze hanno allontanato solo momentaneamente.

Un giornalista, stimato curatore di collezioni private d’arte ed esperto riconosciuto nel campo, in maniera del tutto involontaria si troverà coinvolto nella tristemente famosa mattanza del G8 di Genova nel 2001 e si porterà a casa una invalidità da gestire con farmaci analgesici importanti.

Una psicologa, che lavora nel campo della gestione e dell’inserimento dei migranti, ha avuto relazioni con il protagonista giornalista fin dai tempi del G8, ma che non è estranea – malgrado la sua formazione scientifica – agli influssi magici e dissimulati che producono le persone che ora frequenta.

Un artista originario della Mongolia, che arriva in Italia sull’onda del successo internazionale, non si farà scrupoli ad utilizzare le tradizioni sciamaniche tramandategli dagli avi per conformarsi a suoi progetti di ricerca del successo, attraverso la manipolazione del prodotto artistico. Come gli sciamani delle antiche culture, l’artista contemporaneo assume spesso il compito di connettere il mondo materiale con quello spirituale o metafisico; e intraprende viaggi interiori nell’inconscio, esplorando i recessi della mente e della psiche umana utilizzando la creatività come una chiave per aprire le porte della percezione, portandoci di fronte ad aspetti di noi stessi che potremmo aver dimenticato o soppresso.

Un anziano imprenditore milanese con la passione per il collezionismo d’arte di alto livello, dal passato familiare irrisolto, che attraverso il ruolo di neo mecenate attiverà meccanismi inconsci di elaborazione del lutto.

Una storia ricca di risvolti non immediati, sullo sfondo di pittoreschi borghi liguri (il borgo medioevale di Zuccarello in primis), una Milano “da bere ” e un non secondario retroscena abitato dalle pratiche di preparazione dei reperti anatomici in uso nell’Ottocento in quel di Lodi.

Apparentemente senza una via d’uscita, la vicenda di per sé intrigata troverà la soluzione grazie all’intervento e all’intuito di un ispettore di polizia milanese che riuscirà a sciogliere il bandolo della matassa.

Potrei parlare di un succedersi di avvenimenti che a mano a mano formeranno la trama, l’ossatura e l’incedere del romanzo che ha in sé ovviamente la caratteristica del genere letterario non spoilerabile.

E ci sta.

Marco Bellomi

Ma vorrei soffermarmi su un tema, malgrado si riveli soffusamente tra le righe del racconto, ovvero l’utilizzo della creatività in maniera estrema e avulsa da un contorno etico. Ciò è bene che venga maggiormente sottolineato, in quanto ritengo sia il fulcro del meta messaggio che vorrei arrivasse ai lettori.

In altre parole: la questione spinosa, intrigante e mai risolta della compromissione del concetto di arte contemporanea e di quanto oggi si possa tollerare di ciò che inquina il sistema dell’arte nell’era della globalizzazione capitalista.

Non tanto la questione annosa e noiosa, mal posta del “cos’è l’arte? ” o “è ancora arte, questa? ”. Che qualcuno decida che questa è arte e quello non è arte, ha rilevanza pari allo zero.

È sufficiente affermare che l’arte contemporanea estrema rappresenta un’opportunità per esplorare l’arte in tutte le sue forme più audaci e rompere i confini tradizionali che spesso limitano la nostra percezione dell’arte?

Questa forma di espressione porta con sé un senso di sfida creativa, provocazione e libertà che certamente può aprire nuove strade, sia per gli artisti sia per il pubblico. Che siate favorevoli o critici nei confronti di questa forma artistica, l’arte contemporanea estrema continua a spingere i limiti e a sorprendere, alimentando un dibattito infinito.

La domanda potrebbe, invece, essere declinata con “cosa si cela dietro i gesti estremi e urlati dell’arte contemporanea? ”.

I tre protagonisti principali del romanzo (l’artista, il critico e il collezionista) rappresentano per quanto ovvio la triade dell’attuale sistema dell’arte senza i quali sembrerebbe che l’arte contemporanea non possa reggersi autonomamente come sistema indipendente. Quello che invece ritengo si possa valutare, è l’ineludibile critica alla invadenza del capitale e delle sue leggi mercantili che invadono e contagiano ogni aspetto delle nostre vite.

Quel contagio “scandaloso ” ma realistico e allo stesso tempo metafisico che come un virus alla William Burroughs ci depotenzia come esseri umani, come comunità di pari con uguali diritti e possibilità creative siano esse sviluppate in campo letterario, musicale o artistico.

Un ultimo cenno va alla neo nata casa editrice Porto Seguro di Firenze, che mi ha permesso di esprimermi con questa opera prima in campo letterario.