The Wall – lo sussurro sottovoce – non è il più bel disco dei Pink Floyd. Gli manca l’esuberanza giovanile e la colorata leggerezza di The Piper At The Gates Of Dawn (quando la band era il veicolo delle visioni lisergiche e infantili di Syd Barrett). E anche l’insondabile, irripetibile equilibrio di The Dark Side Of The Moon e dei momenti migliori di Wish You Were Here, in bilico su un filo teso fra gli estremi della sperimentazione e del mainstream rock. Il motivo è presto detto: nel 1979 i Pink Floyd, “quei” Floyd, avevano smesso di esistere, di fare gruppo, di condividere sogni e aspirazioni. Erano sull’orlo di una crisi di nervi e di un dissesto finanziario, condomini forzati ed esiliati di lusso per motivi fiscali (di lì la scelta esotica di registrare ai Super Bear Studios, nei dintorni di Nizza: come i Rolling Stones ai tempi di Exile On Main St., ma senza una corte dei miracoli a reggergli la coda). Non più una democrazia ma una dittatura, con Roger Waters a vestire i panni del despota illuminato: abbastanza lucido da lasciar briglia sciolta a David Gilmour quand’era il caso (Comfortably Numb e il suo epico assolo, recano impresso con vigore il marchio del chitarrista), spietato al punto da licenziare il tastierista Rick Wright per scarsa dedizione alla causa, salvo poi riassumerlo come semplice dipendente della ditta. Eppure quel doppio album uscito il 30 novembre 1979 è invecchiato meglio degli illustri predecessori, dimostrandosi una volta di più un concept buono per tutte le stagioni con un’anima flessibile e una sorprendente capacità di leggere epoche storiche differenti.
Waters concepì l’idea del muro per rappresentare quella distanza che sentiva crescere tra sé e il resto del mondo, band e pubblico inclusi (lo spunto glielo fornì un episodio avvenuto allo Stadio Olimpico di Montreal, ultima data del tour di Animals del 1977: quando Roger, infastidito da uno spettatore importuno, lo centrò con uno sputo come avrebbe fatto un punk rocker qualsiasi). 10 anni dopo, a Berlino, quella metafora preveggente ha celebrato il crollo delle barriere fra l’Est e l’Ovest europeo, per poi farsi via via portavoce di drammi, nevrosi, violenze e tensioni contemporanee: il conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi, il razzismo latente e i respingimenti alle frontiere, la paura del terrorismo, il potere oligarchico in mano alle multinazionali del profitto…
The Dark Side Of The Moon aveva già dimostrato che Waters e i Floyd potevano portare in classifica le angosce dell’uomo contemporaneo. Another Brick In The Wall Part 2, confermò quella loro natura paradossale: un inno alla rivolta contro l’oppressivo sistema educativo inglese diventava il singolo più venduto in carriera grazie a un’intuizione del coproduttore Bob Ezrin (fu lui a convincere un riluttante Gilmour ad aggiungere un ritmo da dancefloor in 4/4 in omaggio all’imperante moda disco) e a quel coro di bambini rapiti per qualche ora dalla scuola dietro l’angolo di Britannia Row. Fu l’unico “gancio” accattivante, l’unico ritmo ballabile in un disco granitico e opprimente come il muro di mattoni bianchi disegnato in copertina e su cui Roger/Pink, protagonista della storia, proietta le ossessioni di una vita attingendo alla propria biografia e a quella del povero Syd Barrett. La perdita del padre missing in action durante lo sbarco ad Anzio del 1944; i rapporti con una madre iperprotettiva, insegnanti sadici e prevaricatori, una moglie sempre più distante e un music business malato che spinge le stelle del rock sull’orlo del delirio d’onnipotenza…
Mattone sopra mattone, nel muro dell’incomunicabilità, mostri e fantasmi prendono le sembianze degli orridi cartoons disegnati da Gerald Scarfe e di musiche claustrofobiche, dense, stratificate. Un Wall of Sound iperprofessionale, con ospiti deluxe quali il batterista Steve Porcaro e il chitarrista Lee Ritenour; i backing vocals del Beach Boy Bruce Johnston e le orchestrazioni hollywoodiane di Michael Kamen. Ma non c’è nulla del candore adolescenziale dei gruppi teen di Phil Spector, fra l’hard rock sciabolante di In The Flesh?, Young Lust e Run Like Hell; l’ipnotica cantilena acustica di Mother; l’invocazione straziante di Don’t Leave Me Now; i sensi intorpiditi di Hey You e della maestosa Comfortably Numb; la malinconia di Goodbye Blue Skies; l’angosciata presa di coscienza di Nobody Home; il grottesco music hall di The Trial; il liberatorio folk da strada di Outside The Wall.
Roba tosta, da collettiva seduta psicanalitica. Troppo ingombrante per non curvare la schiena a un disco pop, ostinatamente controvento rispetto a umori e linguaggi della new wave. Non fosse per la capacità arcana dei Floyd (e di Ezrin, maestro del rock in formato kolossal e a tutto schermo) di toccare le corde intime dell’ascoltatore con una musica a tinte forti e di impatto spettacolare, tenebrosa ma attenta a non oltrepassare mai la soglia dell’incomunicabilità di cui cantano Waters e Gilmour. A blandire e accarezzare le orecchie, oltre che a colpire con il maglio. Cosicché saranno ancora in tanti, tantissimi a scuotersi, vibrare, trovare consonanze in quelle che a prima vista parvero paranoie autoreferenziali di una rockstar miliardaria, in crisi di mezza età. E a scorgere un senso forte, allora come oggi, in quell’urlo angosciato, nelle domande e nelle risposte che il signor Pink, 40 anni dopo, s’è messo a proiettare su quel simbolico muro per evitare ogni fraintendimento. “Mamma, devo fidarmi del governo?“. “No fucking way“, neanche per sogno.
Pink Floyd, The Wall (1979, EMI)