Quando nel 2005 è uscito Stoa, l’album d’esordio su etichetta ECM ma non il 1° nella carriera di Nik Bärtsch (che aveva all’attivo 6 dischi che testimoniavano le sue proposte musicali: dal solo piano al quartetto con percussioni, fino al combo Ronin), a colpirmi è stata la genialità di questo pianista che riesce a fondere filosofie orientali, arti marziali giapponesi e minimalismo in una musica sfrontata e affascinante. Ciò che anzitutto ha colto nel segno è la sicurezza e la naturalezza con la quale Ronin affrontava trame complesse per poi sviscerarle fino alle infinite possibilità di una singola “microcellulamelodica, ritmica o armonica.

Bärtsch, fondamentalmente, ci conduce in un universo musicale basato su influenze letterarie, cinematografiche, teatrali e religiose che provengono da Oriente. Svizzero di Zurigo, è infatti cresciuto praticando kendo e aikido, studiando i film di Akira Kurosawa e Yasujiro Ozu, le pagine letterarie di Haruki Murakami e Kenzaburo Oe, i fumetti del sommo Jiro Taniguchi. E ha tradotto in note la filosofia e la disciplina tipiche delle arti marziali nipponiche. Nella sua musica c’è tutto e il contrario di tutto: tensione, istinto, forza, violenza, controllo, affondo. Se oggi i Ronin sono ancora più coesi, ispirati e determinati, la sua proposta solista è ritmicamente più agile, con una base funk su cui si innestano melodie incantevoli.

Nik, poi, affascina anche dal punto di vista umano. Ci conosciamo da una decina d’anni e il nostro scambio epistolare di mail è iniziato quasi per caso. Volevo entrare in contatto con quel “genietto“, ma non osavo sperare di entrarci in sintonia. Invece, partendo dalla comune passione per quel Giappone dove le culture s’incontrano mantenendo ognuna la propria originalità; e dove si scontrano/abbracciano spiritualità e tecnologia, sincretismo ed esperimenti (chi ricorda, ad esempio, che il ’68 è partito dalle università di Tokyo e non a Parigi?), non solo abbiamo stabilito un contatto ma una reciproca amicizia.

Perchè hai scelto il nome Ronin per la tua band?
«I Ronin erano samurai liberi, non soggetti ad alcun “signore”, che spesso degeneravano al punto da diventare ladri, rapitori, assassini, ma che avevano un codice morale rigidissimo. Seguivano il loro ideale di fusione d’arti marziali, libertà ed etica per ricercarne il significato filosofico fino alla morte. Ho scelto Ronin in omaggio a quella libertà e a quel coraggio di rimanere se stessi in un’epoca, il feudalesimo, dove per sopravvivere si era obbligati ad avere un padrone. Mi piace pensare a noi musicisti come a guerrieri liberi, che per continuare a vivere di musica devono accettare la precarietà di un’esistenza senza orari, senza regole e senza soldi sicuri, basata sull’improvvisazione e sul “giorno per giorno” inteso come disciplina quotidiana del raggiungimento del proprio ideale. Mi sento vicino anche a Batman, creatura dell’oscuro votata alla pace e alla luminosità del pensiero. In musica, cerco una via democratica attraverso la disciplina ferrea e la libertà d’espressione».

Non è alquanto contraddittorio?
«Tutt’altro. Se ci pensi, il budo giapponese non è altro che una filosofia applicata alle arti marziali. Il kendo, che mi hai detto di aver praticato, è differente; ma entrambi tendono alla pace spirituale attraverso un controllo spasmodico di corpo e anima. La musica è comunque un’attività fisica, simile alle arti marziali. Ronin è un tributo alla cultura del sapere. Chi si è emozionato guardando i film di Akira Kurosawa sa a cosa mi riferisco».

Cosa intendi per musica? E qual è il tuo credo sonoro?
«Non so se esiste una concezione personale della musica. Ciascuno di noi attinge dal passato, dai musicisti di riferimento, da ciò che lo emoziona, lo appassiona, lo colpisce spiritualmente. L’energia è l’elemento base da cui nasce ogni mia creazione musicale. Parto da un’idea che poi sviluppo con la band, organismo che vive di vita propria e va lasciato crescere e modificarsi in ogni sua espressione. Il ritmo, la melodia e l’armonia sono solo ciò che concorrerà unitariamente alla musica, alla mia musica. Ho iniziato a suonare molto presto, anche se la mia non si può certo definire una famiglia di musicisti. Mia madre mi ha aperto la via della meditazione e dello zen. Da allora, ho sempre cercato un percorso spirituale alla musica e alla vita. Il concetto di “less is more” mi porta a comporre musica essenziale; e questo, anche nella vita, mi aiuta a non disperdere energie in direzioni inutili e superflue. In Giappone, per 1 anno e ½, ho lavorato per il teatro e per una compagnia di danza. Il teatro si è rivelato fondamentale per il pensiero drammatico e la rappresentazione; la danza per il movimento e la relazione con la musica. La musica è una soltanto, ma ha molte strade che possono incrociarsi. Il bello è proprio questo: non esiste un’unica via».

Avete un rapporto empatico, direi simbiotico nei Ronin…
«Suoniamo assieme da parecchi anni. Come trio dal 2001, poi abbiamo ampliato l’organico e creato altre situazioni espressive. Siamo cresciuti, umanamente e musicalmente. Quando suoni dal vivo non hai tempo di parlare o discutere: la musica si crea sul momento, in quell’istante; e se alla base non c’è comunione spirituale, reciproca confidenza e rispetto, la musica non potrà mai scaturire libera come un flusso di coscienza. Da anni lavoro con Manfred Eicher, il più grande produttore al mondo. Ci discuto, mi accaloro, ma so di poter contare sul suo rispetto e il suo appoggio. Lui si accosta alla composizione con entusiasmo, come un bambino che ascolta la musica per la prima volta. Per me che creo la musica è importantissimo. Amo la sua passione, soprattutto quando mi spiega le sonorità che posso estrarre dal mio pianoforte. In Entendre, il mio ultimo lavoro discografico, l’apporto di Manfred è stato fondamentale per indirizzare la mia ricerca sul suono e sulle possibilità che la musica, senza l’aiuto della band, poteva trovare. Mi ha spinto a osare, a spingermi oltre le mie possibilità, a pensare a 360 gradi».

Quanto è importante il ritmo nella tua musica? L’hanno chiamata zen funk, personalmente non mi piace ma forse rende l’idea…
«Giuliano, tu ragioni da batterista e ciò che colpisce la tua attenzione è l’aspetto ritmico. Neppure a me piace il termine che hanno affibbiato alla mia musica: troppo semplicistico, riduttivo. La danza, il teatro e le arti marziali influenzano il mio lavoro e di conseguenza condizionano la mia composizione. Ma il ritmo è solo una componente del tutto. Avendo instaurato un rapporto fra composizione e improvvisazione, mente e corpo, solo e insieme, credo di aver stabilito quell’equilibrio necessario alla mia musica per poter mantenere la propria originalità. Essendo nato a Zurigo, è inevitabile che abbia un po’ di coscienza dadaista… Il jazz, oggi, non ha più una patria: può nascere a Milano, a Zurigo, a New York, a Parigi, a Nuova Deli, a Tokyo, ovunque. È un linguaggio globale, che però necessita di caratteristiche personali, autoctone. E la musica, prima di tutto, è missione».

Una missione che Nik Bärtsch assolve in toto. Ascoltare la sua musica è un’esperienza totalizzante, a tratti faticosa, dalla quale si esce arricchiti. È musica che obbliga a pensare, a confrontarsi con il mondo e con l’io che alberga in ognuno di noi. Incontro di illuminismo occidentale e spiritualismo orientale, getta un ponte fra le culture che mai prima d’ora aveva avuto riscontro fra le 7 note. Lo zurighese ci indica la via verso l’illuminazione: basta seguire la luce e forse saremo pronti per la musica di domani.

Entendre è un esercizio pianistico di gran valore, una regata solitaria contro le onde impetuose della ripetitività e della banalità. Pur partendo da una concezione musicale non semplice, Bärtsch riesce fin dalle prime note a stabilire la rotta e a mantenere la barra dritta verso il traguardo. A emergere è un solista sicuro, forte, determinato, che non concede respiro all’ascoltatore ma lo avvinghia con i suoi tentacoli obbligandolo a un ascolto che non ammette distrazioni. Ma distrarsi è impossibile, tanta è la forza d’urto di quest’onda sonora bellissima, sulla quale è magnifico “surfare” con l’immaginazione, assaporando il sottile piacere dell’essenziale.